In una misteriosa quanto straordinaria lettera conservata tra le carte autografe di Giovanni Boccaccio, un certo Ilaro, monaco presso il cenobio di Santa Croce del Corvo sopra la foce della Magra, trascrive l’intervista a un viandante di passaggio per il monastero e diretto «ad partes ultramontanas». Benevolmente accolto, il viandante (che nella lettera mai rivela il proprio nome) ricambia l’ospitalità offrendo al buon monaco un «libellum» con un’opera da lui composta. Sfogliando il manoscritto, Ilaro non riesce a nascondere la propria sorpresa: si tratta di un poema che affronta argomenti complessi e profondi, ma li affronta in lingua volgare. Il visitatore (a questo punto il lettore ha capito trattarsi proprio di Dante Alighieri) si difende recitando a memoria l’esordio di una primitiva stesura in latino lasciata poi cadere («Ultima regna canam fluvido contermina mundo» etc.): troppo vilipeso e disprezzato il canto degli antichi poeti ormai; inutile ammannire croste di pane ai lattanti. Molto meglio abbandonare il latino e ricorrere al più comodo e comprensibile volgare.

La scaramuccia con del Virgilio
A prescindere dal giudizio sulla lettera (il compianto Emilio Pasquini, ritenendola autentica, la definì la prima intervista della storia), che suona tanto di palinodica facezia messa in bocca al poeta già morto e incapace di difendersi, potremmo chiederci se e quanto la storia della nostra lingua sarebbe cambiata qualora le cose fossero andate come auspicato da Ilaro. Perché ciò che noi oggi giudichiamo di Dante e della lingua italiana è stato influenzato in modo determinante dal passaggio, nella storia, di Dante stesso e della sua Commedia. Se noi oggi guardiamo alla lingua italiana in un certo modo, cioè, lo facciamo in virtù del verificarsi, nella storia della nostra lingua, di un evento quale la scrittura della Commedia. Un evento che pare oggi meno rivoluzionario di quanto non fu in realtà perché proprio noi da quel passaggio siamo stati condizionati, ma la cui reale portata fu ben percepita dagli ambienti colti contemporanei. Lo testimonia la scaramuccia poetica a distanza tra Dante e il grammatico Giovanni del Virgilio che da Bologna lo invitava, metricamente, a comporre un poema in esametri latini per celebrare le imprese dei grandi personaggi storici del tempo. Così aveva fatto, poco prima a Padova, il poeta laureato Albertino Mussato (non a caso provocatoriamente evocato dal del Virgilio) nella sua Ecerinis.
Ebbene, la Commedia – lo ha osservato di recente Giovanna Frosini –«estende enormemente il campo del poetabile grazie a una lingua enciclopedica che si rivela in grado di rappresentare tutte le sfumature del reale». Quella potenza descrittiva, quel ‘dinamismo glottopoietico’ (è la memorabile etichetta di Giovanni Nencioni) hanno davvero riplasmato la nostra lingua per consegnarla ai posteri più forte, più ricca, più nuova? Nel centenario della morte, prova a rispondere, con il consueto garbo, Luca Serianni in un libretto agile e di piacevole lettura: Parola di Dante (il Mulino «Intersezioni», pp. 200, € 15,00). L’eredità che Dante ci ha affidato si snoda attraverso dieci capitoli che muovendo da un bilancio sulla lingua della Commedia si soffermano sulla persistenza di lemmi ed espressioni dantesche nella lingua moderna (a proposito, moderno, ecco una parola inventata da Dante), esplorando quindi le oscillazioni linguistico-stilistiche attraverso le tre cantiche e saggiando la tenuta di alcune etichette tradizionali come ‘pluristilismo’ e ‘plurilinguismo’ alla luce delle strumentazioni di ricerca di cui disponiamo oggi.
In sintesi, dati statistici alla mano (sono studi che si rifanno ai lavori di Tullio De Mauro), si può confermare che se, all’altezza di Dante, il 60% del nostro vocabolario fondamentale appare già sostanzialmente formato, a valle della Commedia il patrimonio risulta arricchito di un buon 30%. Quanto all’indice di sopravvivenza, se solo il 32% della lingua antica transita intatto ai noi posteri, con l’italiano della Commedia si sale a un significativo 82%. E tanto basti. Certo, molte cose cambiano; termini che per Dante significavano una cosa, oggi hanno assunto una valenza diversa: si pensi alle parole frate e terra che in Dante valgono spesso ‘fratello’ e ‘città’ (quante ‘via Mezzaterra’ sopravvivono nella odierna toponomastica cittadina), o a ragazzo, che per Dante significa solo ‘garzone’; accezioni oggi obsolete o scomparse. Ma si pensi ad altri vocaboli come mensola, prima attestazione nel poema e oggi termine proprio del linguaggio quotidiano (quanti di noi ne sospettano l’origine dantesca?). Da un carotaggio provvisorio applicato a quindici canti per cantica, Serianni estrae ben 116 prime attestazioni dantesche, con assoluta prevalenza nel Paradiso (e non c’è da sorprendersi). Paradiso che domina, inevitabilmente, anche nella categoria dei latinismi mentre cede statisticamente il passo alle altre due cantiche quanto alle piegature verso il basso e verso il comico (ma san Pietro, nella sua invettiva di Par. XXVII, non esita a ricorrere a un incondito puzza) e viceversa: a titolo di esempio, non so se qualcuno si sia mai accorto che la parola riso non appare mai nell’Inferno se non per il «disiato riso» di Ginevra. Sono tante piccole incursioni con cui Serianni restituisce molto, in poco spazio.

L’assenza di autografi
Beninteso, nessuno ignora che gli esiti dell’indagine pendono sull’abisso dell’assenza di autografi: noi possiamo cioè descrivere la lingua del tempo di Dante, quella che lui udì dalla nutrice, ma non possediamo una sola riga scritta di suo pugno e, per la fonomorfologia, dobbiamo affidarci quasi esclusivamente ai vocaboli in rima su cui si esercitò a suo tempo l’ingegno finissimo di Ernesto Giacomo Parodi (l’autore del trecentesco Ottimo commento, che vantava una conoscenza personale del poeta, ci assicura che Dante stesso ebbe a garantirgli di non avere mai cambiato una sola parola del poema per far tornare la rima). A questo, Serianni dedica tutto il primo capitolo, necessaria premessa a quanto segue. E la premessa riveste particolare rilievo dal momento che in Dante abbiamo talvolta a che fare con incursioni linguistiche periferiche, inserzioni di tratti decisamente connotati a scopo mimetico-dialogico su cui però va fatta la tara alla luce della lezione dei codici e della loro patina linguistica. Insomma, un autentico ginepraio.
Qualcosa si può comunque lucrare: il tosco-occidentale ponno per il fiorentino ‘possono’, certificato dalla rima e, all’interno di verso, da ragioni metriche; il settentrionale e ancora controverso istra (‘ora, adesso’) còlto in bocca a Virgilio da Guido di Montefeltro; termini come co’ (‘capo’) e ca’ (‘casa’), il primo attestato anche a Firenze, il secondo, a quanto ho visto, no (lo userà più tardi il Sacchetti nel suo Trecentonovelle). Di particolare interesse, per chiudere, il fico che Brunetto Latini evoca a Inf. XV nella sua esortazione al poeta («tra li lazzi sorbi / si disconvien fruttare al dolce fico»). L’esito fiorentino, garantito dalla rima con antico e nimico, riconduce al diverso trattamento riservatogli dal romagnolo frate Alberigo, tra i traditori degli ospiti di Inf. XXXIII. Il perfido frate tese un agguato ai suoi familiari invitandoli in casa propria con il pretesto di un banchetto riparatore. Alla parola convenuta, «vengano le frutta», fece entrare in azione i propri sicari uccidendo gli ospiti senza pietà. Nel rievocare l’efferata strage, il parlante settentrionale Alberigo esibisce, coerentemente, la cosiddetta (si perdoni la pedanteria) sonorizzazione della velare sorda intervocalica di morettiana memoria: figo dunque (in rima con disbrigo e, appunto, Alberigo): «I’ son frate Alberigo; / i’ son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo».