Dopo il varo da parte del governo del disegno di legge costituzionale per l’elezione diretta del premier, molti osservatori hanno alzato lo sguardo verso il Quirinale per tentare di sondarne gli umori. Tra le principali riforme costituzionali approvate (e poi bocciate dai referendum), da quella di Berlusconi e Bossi nel 2006 e a quella di Renzi nel 2016, questa targata Meloni è senza dubbio quella che incide maggiormente sui poteri del Capo dello Stato.

Lo fa in modo indiretto, cambiando radicalmente gli articoli che riguardano la formazione dei governi. Non è un caso che Meloni e la ministra Casellati si siano prodigate a ribadire che i poteri del Colle non vengono intaccati. Proprio perché non è vero. Meloni ha voluto aggiungere anche che ci sono state delle «interlocuzioni» con gli uffici del Quirinale, «come avviene per tutti i provvedimenti».

UNA FRASE CHE QUALCUNO ha voluto interpretare come una collaborazione alla stesura del testo, o addirittura come una condivisione. Su questo punto dal Colle è subito filtrata una chiara smentita: il presidente è stato sì informato dei vari passaggi, ma la riforma non ha ricevuto nessun avallo. E del resto il Capo dello Stato non interviene sui disegni di legge.

Lo stesso spirito accompagnerà la firma del ddl: un «atto dovuto» non certo una «condivisione del testo». Anche durante il lungo iter parlamentare, il Colle resterà in silenzio. Anche se fosse contrario, non si esprimerebbe. «Per farlo dovrebbe prima dire “domani mi dimetto”, in modo da affrontare una questione che non lo riguarda più», ha notato Giuliano Amato.

CHI CONOSCE IL PENSIERO di Mattarella sulle funzioni del Parlamento può però affermare che questa riforma, che contiene addirittura una previsione costituzionale sul premio di maggioranza al 55% da assegnare alle liste collegate al premier eletto, è quanto di più distante dalla tradizione cattolico democratica in cui il presidente si è formato. Anche per quanto riguarda il principio di rappresentatività.

Quando nel 1993, dopo il referendum che vide stravincere il sistema maggioritario, toccò a Mattarella l’incarico di relatore della nuova legge elettorale, l’allora deputato Dc si impegnò per evitare che il nuovo sistema distorcesse in modo eccessivo il rapporto tra voti e seggi, introducendo la quota del 25% di deputati e senatori eletti con il proporzionale.

C’è nel suo pensiero una lunga tradizione parlamentarista, che esalta la possibilità che sia il Parlamento il luogo in cui si formano le maggioranze di governo, senza che la Costituzione fissi con rigidità quali strade siano percorribili. C’è in quella cultura popolare anche una forte sfiducia verso le scorciatoie populiste e l’accentramento dei poteri in un’unica carica. Tanto più nella figura di un premier eletto che, a differenza dei presidenti americani e francesi, non avrebbe nelle Camere un bilanciamento dei poteri, ma una maggioranza blindata per via costituzionale.

A DIFFERENZA DI QUANTO affermavano alcuni esponenti di centrodestra, le norme transitorie del ddl prevedono che la riforma entri in vigore al primo scioglimento delle camere dopo l’approvazione: dunque nel 2027, quando Mattarella sarà ancora in carica, e non alla fine del suo mandato nel 2029. Già si rincorrono ipotesi su possibili dimissioni del Capo dello Stato dopo l’eventuale sì al referendum, come gesto di galateo istituzionale ma anche per non restare al suo posto «con le mani legate», come ha osservato il costituzionalista Francesco Clementi.

Si tratta, appunto, di scenari ipotetici. Su un punto invece non ci sono dubbi: questa riforma è uno schiaffo al Capo dello Stato non (solo) perché ne limita i poteri in caso di crisi di governo, ma perché contraddice la sua cultura istituzionale, in tutti i suoi pilastri.