Il rapporto debito pubblico/Pil in Italia è sceso nel 2021 al 150,8% e nel 2022 probabilmente oscillerà intorno al 146%, era al 155,3% nel 2020 (l’anno prima del Covid eravamo al 134,1%). Le previsioni, tutte da verificare, perché costruite al netto di molte variabili, ipotizzano una ulteriore riduzione da qui fino alle fine del 2025 per circa altri 7 punti percentuali. Eppure molte delle misure per l’emergenza Covid hanno avuto necessità di rifinanziamento nel 2021, così come nel 2022 sono andati crescendo gli interventi contro il caro energia e l’inflazione più in generale. I deficit annuali sono stati importanti, ben lontani da quel vecchio parametro di Maastricht pari al 3% del Pil. Infatti, si dovrebbe attestare al 5,1% nel 2022, ma in riduzione rispetto al 7,5% del 2021 e al 9,6% del 2020.

La domanda è lecita, come è possibile in presenza di deficit annuali cospicui che si riduca il rapporto debito/Pil complessivo? In realtà non c’è nessun particolare mistero da svelare. Nel 2021 il rimbalzo dopo le chiusure del 2020 ha fatto segnare al Pil italiano un più 6,7% in termini di volume (era calato del 9% nel 2020), è cresciuto il denominatore determinando così una riduzione del rapporto. Nel 2022 la crescita è stata minore, si stima intorno al 3,7%, ma la vera novità è stata la crescita impetuosa dell’inflazione. Il fattore inflazione ha cominciato a pesare già negli ultimi mesi del 2021 (+1,9% annuale), per poi accelerare nel 2022 (+8,1% nel 2022). Mentre il Pil e, in una certa misura, il gettito fiscale (si pensi all’IVA) tendono a seguire l’inflazione e quindi a crescere nominalmente, il valore dei titoli di stato con scadenze anche lunghe (la vita media dei titoli è pari a poco più di 7 anni) non è indicizzato, se non per una piccolissima fetta, all’inflazione. In altri termini, l’inflazione garantisce la crescita del denominatore, mentre il debito accumulato al numeratore non cresce automaticamente. Certamente crescono le spese anche in assenza di interventi normativi: quest’anno la spesa pubblica ha sfondato per la prima volta quota 1000mld: 23 miliardi in più sul 2021. Il debito pregresso, però, si svalorizza nei fatti.

L’inflazione favorisce i debitori, ma ovviamente penalizza i creditori. Chi ci rimette? Nel caso del debito pubblico italiano a rimetterci sono in larga parte banche e investitori istituzionali, ovvero i principali possessori di titoli di debito italiano insieme alla Banca d’Italia (giunta ormai al 25% del totale). Un po’ d’inflazione non fa male alla finanza pubblica non solo italiana. Tutto bene dunque? Non proprio. Banche e investitori istituzionali trovano nel medio periodo il modo di difendersi, almeno parzialmente, da questo meccanismo (rialzo dei tassi e dei costi alla clientela, diversificazione degli investimenti finanziari ecc.).

Contemporaneamente i tassi d’interesse sui titoli futuri tenderanno ad aumentare: Il Btp a 10 anni a fine 2021 rendeva lo 0,8 a fine 2022 quasi il 4% (ancora negativi in termini reali). Ovviamente la vita media del debito intorno ai 7 anni e mezzo permette che l’effetto svalutazione possa durare anche diverso tempo, ma non all’infinito. Contemporaneamente l’inflazione determina una riduzione dei salari e dei redditi reali se non crescono nominalmente quanto l’inflazione, sia dei dipendenti pubblici che privati. Non solo, la crescita nominale di salari, stipendi e pensioni (anche se negativa in termini reali), determina il fenomeno del Fiscal Drag, ovvero un extragettito determinato dal superamento degli scaglioni di reddito dell’IRPEF sui cui si calcolano le imposte.

Il salario/stipendio sarà minore in termini di potere d’acquisto, superiore in termini nominali e quindi tassato maggiormente. Insomma, se l’inflazione tende a svalutare il debito pubblico accumulato, alla lunga il rischio è che questo beneficio per le casse statali venga in larga parte scaricato su salari e pensioni.