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Perché chiedere la secessione è anticostituzionale

Stato di diritto Il referendum del 1 ottobre è esplicitamente secessionista, inoltre la legge catalana prevede l’obbligatorio e immediato distacco dalla Spagna nel caso di vittoria del sì. Dunque trovano fondamento sia il blocco posto dalla Corte spagnola al procedimento referendario, sia le iniziative nel medesimo senso del governo

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 30 settembre 2017

Esiste un diritto alla secessione? Per valutare gli eventi spagnoli questa è la domanda. E la risposta per un costituzionalista è una sola. Nessuna Costituzione riconosce come diritto la separazione unilaterale perché ne verrebbe un harakiri costituzionale.Con la dissoluzione dell’ordinamento e della stessa Costituzione. Per la Spagna, questo si traduce in una esplicita clausola di unità indissolubile della nazione spagnola, cui si accompagna l’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono (art. 2). Un impianto non lontano dall’art. 5 della Costituzione italiana.

Il referendum catalano è esplicitamente secessionista: «Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di repubblica?». Inoltre, la legge catalana prevede l’obbligatorio e immediato distacco dalla Spagna nel caso di vittoria del sì. Dunque dal punto di vista costituzionalistico trovano fondamento sia il blocco posto dalla Corte spagnola al procedimento referendario, sia le iniziative nel medesimo senso del governo.

Altra questione è se le scelte dell’esecutivo siano quelle politicamente più utili e opportune, o se invece altre mosse, di dialogo e trattativa, sarebbero state da preferire. In contesti simili gli aspiranti secessionisti fanno riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli. Sancito già nel 1945 dall’art. 1.2 della Carta delle Nazioni Unite, era un mantra, in Italia, per la Lega secessionista della prima ora. È stato richiamato a sostegno dei referendum canadesi sul distacco del Quebec (1980, 1995), e del referendum 2014 sull’indipendenza della Scozia. Anche la legge catalana sul referendum si riferisce esplicitamente all’autodeterminazione. Ma cosa è un “popolo” ai sensi dell’art. 1.2 della Carta UN? Soprattutto, la norma sembra doversi correttamente riferire a “popoli”, comunque definiti, che siano oppressi, privati di libertà e diritti, sfruttati, assoggettati a dominazione coloniale, a sudditanza economica. Tale non era il caso per il Quebec e la Scozia, né è il caso per la Catalogna: un quinto del Pil della Spagna, con una autonomia già molto ampia. Quando è una parte economicamente forte e largamente autonoma a volersi staccare, i fantasmi dell’egoismo territoriale diventano corposi.

Dalla Catalogna a Lombardia e Veneto. Le due regioni votano il 22 ottobre per l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”: un ampliamento previsto e disciplinato dall’art. 116, co. 3, della Costituzione. Proprio per questo, i referendum sono del tutto inutili. Il procedimento si attiva su “iniziativa” della regione, parola che apre a una trattativa con Roma a livello di esecutivi, o anche alla presentazione da parte della regione di una proposta di legge statale. Legge, va ricordato, da approvare a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa con la regione. Quindi, la regione può avviare il procedimento, e può bloccarlo prima della conclusione, se sgradita. Un referendum brucia milioni di euro e nulla aggiunge o toglie. Poteva bastare al più una mozione approvata nei consigli regionali. Mentre sono obsoleti, dopo il titolo V riformato nel 2001, gli argomenti utilizzati per bocciare (Corte cost., 470/1992) l’ipotesi di referendum per una legge costituzionale di iniziativa regionale sulla trasformazione del Veneto in regione speciale. Ricorrendo oggi alle urne si vuole piuttosto lanciare la corsa per le politiche del 2018. Nella stessa chiave si possono interpretare gli squilli di tromba di una Lega sovranista – e non più secessionista – sulla vicenda spagnola.

Non sappiamo se il referendum catalano si terrà, mentre quelli del lombardo-veneto non trovano ostacoli. Situazioni diverse, che non sfuggono però alla sensazione che qualche elemento le accomuni. Il mondo globalizzato e iperconnesso in una rete senza confini mette in crisi il modello dello stato nazionale, e i suoi canoni di diritti, libertà, eguaglianza, giustizia sociale, democrazia. Alcuni – che magari si sentono più forti – sembrano preferire il fare da soli. Ma è una risposta illusoria.

Un mondo di piccole patrie non assicura certezze o più luminosi orizzonti. Tanto meno li concede a chi strappa per sé qualche briciola di benessere in più negando ogni più ampia solidarietà. In fondo tra i paesi e nei paesi, come nelle famiglie, alla fine sulla volgare pecunia si litiga. E non finisce bene.

 

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