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Per rovesciare il declino, partire dai bisogni di salute e non dai costi

Ospedale Regina Margherita di Torino - foto LaPresseOspedale Regina Margherita di Torino – LaPresse

Vecchi errori e nuova autonomia La situazione denunciata dal rapporto Svimez è purtroppo una conferma. I segnali di difficoltà del Servizio sanitario nazionale appaiono sempre più evidenti. Dalle lunghe attese in pronto soccorso alla disaffezione […]

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 8 febbraio 2024

La situazione denunciata dal rapporto Svimez è purtroppo una conferma. I segnali di difficoltà del Servizio sanitario nazionale appaiono sempre più evidenti. Dalle lunghe attese in pronto soccorso alla disaffezione degli operatori. Dalla crescente proporzione della spesa sanitaria sostenuta direttamente dai cittadini ai ritardi nell’accesso alle analisi più sofisticate.

Ma la ricetta per affrontare queste difficoltà appare largamente condivisa: aumento del finanziamento e territorializzazione dei servizi.

La sezione sulla sanità del Pnrr sembra condividere questo approccio, prevedendo la creazione diffusa di nuove strutture assistenziali, le case e gli ospedali di comunità, che dovrebbero fornire ai cittadini, rispettivamente, i servizi sanitari di base e il trattamento dei problemi di salute meno complessi. Questo avverrebbe il più vicino possibile al luogo di residenza evitando il ricorso agli ospedali più grandi, più costosi e maggiormente attrezzati.

C’è qualche discussione sul numero delle case e degli ospedali di comunità che sarebbero necessari, si lamenta il finanziamento inadeguato, ma sui rimedi non affiorano alternative. Qualcuno nota che non ha molto senso aumentare le strutture sul territorio se poi nei bilanci delle Regioni non aumenta la spesa per assumere i professionisti che ne consentano il funzionamento.

Queste obiezioni per quanto fondate non sono sostanziali perché trascurano come ragione profonda della crisi, la progressiva trasformazione del Ssn da un sistema di tutela del diritto alla salute ad un’industria per l’offerta di prestazioni. Un’evoluzione segnata, nel 1994, dall’adozione da parte del ministero della Salute di una classificazione dei ricoveri ospedalieri basata sulla diagnosi di dimissione e dal riconoscimento agli ospedali di una tariffa collegata al costo medio standardizzato per ciascuna classe di ricovero.

Nel 1996 con la stessa logica si definivano tariffe anche per le prestazioni ambulatoriali. Sebbene riguardasse solo alcune tipologie di servizi, l’introduzione della tariffa rispecchiava un mutamento radicale nell’approccio culturale alla sanità pubblica: al valore complesso della cura si sostituiva infatti un prezzo per ciascuno degli interventi che avrebbero dovuto assicurarla, si pagava insomma la prestazione a prescindere dal risultato ottenuto in termini di salute.

Questo cambiamento faceva prevalere una logica di mercato e imponeva un’idea economicista dell’efficienza, intesa come rapporto tra il volume delle prestazioni e i costi sostenuti per produrle, un equivoco che rischia di perpetuarsi anche in una sanità territorializzata e magari dotata di una mole più elevata di finanziamenti. Se non si cambiano le regole continueranno ad essere privilegiate le regioni e le strutture che producono di più, più in fretta e a costi minori penalizzando quelle che si fanno carico degli effettivi bisogni di salute delle persone e della loro soddisfazione.

Oggi quelle regole è possibile cambiarle perché, paradossalmente, le informazioni raccolte per pagare le prestazioni si sono dimostrate in grado di descrivere e misurare le condizioni di salute della popolazione, il suo accesso ai servizi e, quindi, l’equità e l’efficacia degli interventi sanitari di cui ha goduto. Oggi è insomma possibile orientare il Ssn verso la produzione di salute e restituire alle prestazioni un valore unicamente strumentale.

Per realizzare questa conversione è però necessario in primo luogo ripensare per la sanità il sistema degli indicatori ministeriali di performance regionale (Lea: Livelli essenziali di assistenza) che sono in prevalenza misure di attività ed efficienza operativa invece che di salute e di equità ed evitare di estendere questo approccio fallimentare ad altre aree del welfare come si vorrebbe fare con i Livelli essenziali delle prestazioni (Lep), contenuti nel progetto di legge sull’autonomia differenziata in fase di approvazione.

Gli indicatori di salute e di equità, a differenza dei Lea e dei Lep, non dovrebbero servire per assegnare alle Regioni patenti di buona condotta, ma dovrebbero leggere le diseguaglianze nella salute, nell’accesso ai servizi e nella loro qualità, per invertire la logica di finanziamento del sistema, non punendo, ma anzi sostenendo le aree territoriali che di queste diseguaglianze sopportano il peso: proprio il contrario, insomma, del regionalismo differenziato.

La possibilità di ricostruire, attraverso le informazioni disponibili, la qualità di interi percorsi di cura consentirebbe inoltre di valutare anche i professionisti e le strutture coinvolte, a tutti i livelli di funzionamento del Ssn, sulla base del loro contributo a generare salute ed uguaglianza.

In questa prospettiva, anche i presidi decentrati di assistenza, come case e ospedali di comunità, non godrebbero di un pregiudizio favorevole solo per la loro collocazione sul territorio, ma dovrebbero costituire strumenti per la realizzazione di interventi efficaci di sanità pubblica e di presa in carico delle persone, dovrebbero diventare parte di una rete di relazioni di cura che attraversi tutto il servizio sanitario: dai professionisti della tutela e dell’assistenza primaria, ai presidi territoriali, agli ospedali periferici, alle strutture ospedaliere di livello superiore. La parola chiave non dovrebbe essere allora la priorità del territorio, ma la continuità tra i vari tipi e i vari livelli di intervento.

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