Non ci vorranno giorni: serviranno mesi. Il ministro Crosetto mette da parte la diplomazia e parla chiaro: «Il parlamento potrà esprimersi sul Mes solo alla fine di un percorso più ampio di cui il Mes è solo una piccola parte». Dunque certamente non domani nonostante la calendarizzazione a Montecitorio, e questo era già chiaro, ma neppure entro la fine dell’anno. Bisognerà arrivare al 2024 e se si intendono i primi o gli ultimi mesi dell’anno dipenderà dalle sorti del capitolo che del «percorso ampio» rappresenta invece la parte più importante, il nuovo Patto di Stabilità.

LA PREMIER CONFERMA e chiude la querelle anche interna alla maggioranza: «Non si può parlare del Mes se non si conosce il contesto. Quando lo conoscerò saprò anche cosa secondo me bisogna fare del Mes». Già che ci si trova Meloni risponde anche alla segretaria del Pd che in un’intervista la aveva accusata di paralizzare tutta l’Europa con i continui rinvii sulla ratifica del Salva Stati rimodellato. Ma quale paralisi? «Il Mes c’è basta attivarlo. Peccato che nessuno lo voglia attivare. E perché non lo ha ratificato la sinistra in quattro anni di governo?». Domanda retorica dalla risposta nota. In quei governi c’era il M5S, che al Mes era contrario e ancora lo è.

Schlein risponde a stretto giro accusando Meloni di giocare alle tre carte, dal momento che è della ratifica sottoscritta da tutti tranne che dall’Italia che si sta discutendo. Non è che sia proprio vero. Quello di cui tutti stanno parlando, i contrari alla ratifica, i favorevoli e i così così, è casomai cosa convenga fare per strappare maggiori concessioni sul tavolo principale, quello delle nuove regole di stabilità. Il responsabile economico del partito di Elly Schlein, Antonio Misiani, per esempio, teme che il rinvio «indebolisca l’Italia nelle trattative con la Ue». Il capogruppo azzurro Paolo Barelli, rappresentante dell’ala della maggioranza che sarebbe propensa a ratificare subito, argomenta che così i falchi dell’Unione si sentirebbero rassicurati e magari concederebbero subito facoltà di deroga alle nuove regole. La Lega pigia sul pedale opposto, con Riccardo Molinari che di Mes non intende discutere «con la trattativa sul Patto lontana dalla conclusione».

IN PARTE SI TRATTA anche di un comodo paravento. Se e quando si arriverà al momento della verità, cioè al voto in aula, la maggioranza rischia molto seriamente di spaccarsi e sarebbe per la premier un gran brutto segnale. Forza Italia, anche senza contare l’opportunismo a fini di trattativa, è favorevole a ratificare comunque. FdI no ma si adeguerebbe ai voleri della regina. Un pezzo di Lega, per dirla con il truculento Claudio Borghi, piuttosto che votare a favore si «taglierebbe la mano» ma lo stesso Matteo Salvini, nella situazione data sarebbe molto tentato dallo sfilarsi, magari con la formula morbida ma pur sempre lacerante della astensione. Non che il quadro sia diverso nel campo dell’opposizione, dal momento che i 5S la pensano più o meno come Borghi e anche nell’opposizione spaccarsi sull’Europa non sarebbe precisamente un lieto evento né un buon viatico per il prosieguo.

MA IL PROBLEMA non si porrà, o almeno non prima che sia stato sciolto un nodo più stringente, anzi tanto stringente da potersi rivelare scorsoio. Sul fronte principale, quello del Patto, Meloni mostra spiragli di ottimismo: «Vedo spiragli per una soluzione seria che tenga conto del contesto». Però ribadisce anche la minaccia di non firmare un accordo che del «contesto in cui operiamo» non tenesse il debito conto: «Non credo che si possa dire sì a un Patto che nessuno Stato potrebbe rispettare». Insomma, se quegli «spiragli» non si rivelassero larghi abbastanza da permettere all’Italia di rispettare le regole di bilancio ma anche di investire l’Italia potrebbe mettersi di mezzo, come va ripetendo da mesi e forse si tratta di un bluff ma forse no. Probabilmente non basterebbe a risolvere la questione neppure l’accettazione del paragrafo oggi controverso, la flessibilità sul deficit per il triennio 2025-27. A quel punto non resterebbe che ripristinare per qualche mese, sino a dopo le elezioni europee ma di fatto sino all’autunno, le vecchie regole. Per l’Italia, che mirava a prorogare la sospensione, non sarebbe l’esito peggiore. Quelle regole, già spesso brandite ma raramente applicate, ridotte a tappabuchi provvisorio avrebbero ben scarsa incidenza.