«Ho letto parola per parola la sentenza della Cassazione, e non dice da nessuna parte che il Jobs Act si debba applicare al pubblico impiego: anzi, se vogliamo essere precisi, di Jobs Act i giudici di Roma non parlano mai». Rossana Dettori, segretaria generale della Funzione pubblica Cgil, è «arrabbiata con i titoli fuorvianti dei giornali», che «guarda caso parlano di licenziabilità dei lavoratori pubblici due giorni dopo la nostra manifestazione per il contratto». «Si studino bene le leggi – aggiunge – oggi licenziarci per giusta causa è già possibile. Ma dall’altro lato, come dice la stessa ministra Marianna Madia, se il provvedimento è ingiusto c’è diritto al reintegro».
Insomma, ribadite chiaro e tondo che per voi le «tutele crescenti» non esistono, e che vale ancora l’articolo 18.
Sì, ma non lo diciamo noi, è scritto nelle leggi, e la Cassazione ha confermato che questo fatto è «innegabile». Cerco di spiegare, seguendo un ordine chiaro. In passato, fino a fine Novecento, i lavoratori del pubblico non erano regolati da un contratto – come quelli privati – ma da una legge. Erano quindi esclusi dallo Statuto dei lavoratori e in particolare dall’articolo 18. Tutto questo fino al 2001, quando con i dl 29 e 165 si è «privatizzato» il nostro rapporto di lavoro, e si è quindi disposta la piena applicazione dello Statuto anche a noi.
E nel 2012 la riforma Fornero.
Quello è l’ultimo passaggio: la riforma Fornero ha ristretto le fattispecie del reintegro per tutti, e ovviamente anche per noi. La sentenza della Cassazione ha annullato il licenziamento del dirigente di Agrigento per motivi procedurali: la commissione disciplinare che gli ha inferto la sanzione era composta da una sola persona, mentre dovrebbero essere minimo tre. E poi, in un altro punto, ha confermato che per noi vale ancora l’articolo 18.
I lavoratori privati a questo punto sono svantaggiati. Per loro il Jobs Act ha ridotto il reintegro a casi limitatissimi.
In pratica, un eventuale referendum abrogativo del Jobs Act. Ma oggi come si licenzia un dipendente pubblico?
Oggi si può già licenziare per giusta causa: ad esempio in Emilia Romagna esiste un’addetta – che in tv scherzosamente hanno definito una «tagliateste» – che facilita le segnalazioni di eventuali abusi o reati alle commissioni disciplinari che poi dovranno decidere le sanzioni, fino al licenziamento. Ma in tutta Italia funziona così: dal Comune alla Asl, fino ai ministeri, si nomina una commissione disciplinare – con minimo tre componenti – a cui arrivano eventuali segnalazioni da parte di dirigenti o colleghi.
Questa commissione insomma istruisce un processo. Ma ci sono dentro anche i sindacati?
Assolutamente no. Noi in passato ne facevamo parte, ma dalla riforma del 2001 abbiamo scelto di non esserci. Il lavoratore, quando viene chiamato a rispondere dell’abuso di cui è accusato, può farsi affiancare da un avvocato o da un delegato sindacale. La commissione alla fine decide, in base alle fattispecie elencate nel contratto (dai ritardi alle assenze ripetute, dall’aver maltrattato gli utenti ai furti, o aver accettato dei regali) la pena da comminare: dal richiamo alla sospensione senza stipendio, fino appunto al licenziamento. Il lavoratore ha diritto a presentare ricorso. Nel 2014 ci sono stati più di cento licenziamenti per giusta causa.
È difficile per un dirigente denunciare? Voglio dire: spesso c’è una protezione reciproca, anche da parte dei politici…
Io credo che se vedi uno che timbra in mutande davanti a te 20 cartellini, o denunci o denunci. Insomma: io sono per il licenziamento senza se e senza ma, quando si accerta un reato. Perché si danneggia l’amministrazione, ma anche l’immagine di tutti i dipendenti pubblici italiani. Io ho fatto la caposala per 20 anni, al Policlinico Umberto I e poi all’Odontoiatrico. Cercavo di motivare la mia squadra, e tutto funzionava. Ma poi mi sono trovata davanti a un caso di molestie sessuali: non ho esitato a denunciare, ed è stato aperto un procedimento disciplinare. Non ho mai saputo come è andata a finire perché dopo la denuncia mi hanno cambiato di reparto.