Per il Pd Draghi è tutt’altro che un «papa straniero»
Sinistra Il partito democratico è nato per far transitare la sinistra fino in fondo nel neoliberalismo progressista. Ma è dalla crisi di questo blocco egemonico che negli Usa è nato il trumpismo
Sinistra Il partito democratico è nato per far transitare la sinistra fino in fondo nel neoliberalismo progressista. Ma è dalla crisi di questo blocco egemonico che negli Usa è nato il trumpismo
Gli interrogativi sulla tentazione del Pd di consegnarsi anche in futuro al «Papa straniero» Draghi, possono forse essere meglio impostati grazie alla lettura del saggio recente in traduzione italiana di Nancy Fraser Il vecchio muore e il nuovo non può nascere. Dal neoliberismo progressista a Trump e oltre (Ombre corte).
Il titolo allude ad una celebre frase di Antonio Gramsci: implicita analogia fra la fase in cui il movimento operaio non riusciva a farsi alternativa alla fine del vecchio liberalismo (aprendo la strada al fascismo) e i tempi moderni segnati dal capitalismo neoliberista senza più capacità di acquisire consenso ma anche senza alternative se non la sua ultima maschera e cioè il sovranismo che lascia inalterate le gerarchie sociali e l’attuale sistema di accumulazione e distribuzione all’insegna di un medesimo paradigma produttivista (Dominijanni).
Nancy Fraser spiega che negli Stati Uniti il trumpismo si è imposto nel varco creato dalla crisi del blocco egemonico costituito dal «liberalismo progressista» e cioè una strana alleanza fra i movimenti per i diritti civili e i settori più dinamici dell’economia finanziaria degli Stati Uniti sulla base di una coniugazione fra una programma economico di tipo espropriativo e plutocratico e una politica di riconoscimento di tipo liberale che sostituiva l’idea di giustizia sociale e di eguaglianza con quella di meritocrazia.
Di fatto Clinton ha implementato e consolidato le riforme reaganiane (deregolamentazione di banche e finanza, deindustrializzazione, tagli al welfare) che potevano meglio essere egemoniche se coniugate con politiche di riconoscimento.
La riduzione dell’eguaglianza a meritocrazia – ripresa in Europa da Tony Blair e dal Pd in Italia alla svolta del millennio – non era volta a eliminare la gerarchia sociale ma a «diversificarla», a «dare più mezzi» a soggetti individuali di talento dei gruppi svantaggiati (donne, minoranze etniche etc.) che riuscissero a emergere.
In tal modo il neoliberismo progressista riusciva a fare il lavoro della destra con una patina emancipazionista che – direbbe Boltansky – assorbiva e neutralizzava lo spirito del ‘68 nel nuovo capitalismo. Il risultato fu che i neoconservatori repubblicani e i democratici finirono per condividere le politiche di distribuzione contrapponendosi soltanto per quelle legate al riconoscimento.
Sebbene il patriarcato e il razzismo non possano ricondursi unicamente a cause economiche, i diritti delle donne e delle minoranze etniche non potevano che essere penalizzati dall’ampliarsi delle diseguaglianze materiali dopo il 2008. Le classi lavoratrici e il ceto medio sempre più proletarizzato hanno fatto fatica a credere alla narrazione di Wall Street e della Silicon Valley, anche dopo l’impalpabile doppia presidenza di Obama, che ha affrontato la crisi immettendo ingenti somme di danaro pubblico per salvare le banche e non per aiutare le persone.
Ecco perciò che qui entra in gioco Trump con la sua promessa di coniugare una politica reazionaria sul piano del riconoscimento a una politica di distribuzione più attenta alle esigenze della working class. Promessa, ovviamente, disillusa.
Fraser scriveva nel 2019 riflettendo sul fatto che sconfiggere Trump tornando al neo-liberismo progressista che contrappone la razza alla classe avrebbe voluto dire preparare il terreno a soluzioni ancora più feroci.
Il suo sguardo era rivolto ai socialisti democratici di Sanders per la ricomposizione di un blocco contro-egemonico che mettesse insieme le esigenze di riscatto sociale della working class con quelle di riconoscimento delle minoranze, dei diritti delle donne e dell’ambiente.
Ma tornando all’Italia, il Pd nacque proprio per far transitare definitivamente la sinistra nel neoliberalismo progressista, per cui ormai da tempo uno come Draghi non gli è per nulla «straniero». Gran parte della classe dirigente del partito è del tutto interna alla logica denunciata dalla Fraser, anche per la rottamazione che ha mutato il volto degli insediamenti originari dei due partiti popolari che lo avevano fatto nascere.
La strada per qualunque soggetto politico vecchio e nuovo che voglia evitare un contraccolpo feroce alla Trump, non può che essere invece quella segnata dalla Fraser e cioè coniugare la difesa dei diritti civili a quelli sociali, l’attenzione al riconoscimento a quella alla redistribuzione e al mutualismo.
Il fatto che pezzi delle classi popolari cedano alle sirene sovraniste indulgendo al razzismo, al maschilismo e al produttivismo, non può essere affrontato in modo moralistico e moralizzante, ma offrendo al contempo soluzioni e tessendo pratiche sociali ed economiche che rottamino il neoliberismo, di cui il Draghi filo-confindustriale e l’entourage di cui si è circondato sono campioni: l’obiettivo è mostrare come un mondo più aperto, antipatriarcale e multiculturale possa anche essere più socialmente giusto, ecocompatibile e prospero non solo per i pochi talentuosi capaci di ascendere la scala sociale.
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