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Per i migranti subsahariani l’Egitto è diventato più razzista

Per i migranti subsahariani l’Egitto è diventato più razzistaLavoratori migranti agli scavi nella Valle dei Re, Luxor – Ap

Migrazioni Aumentano i casi di insulti e abusi nel paese nordafricano, casa a circa sei milioni di migranti, la metà da Sudan e Sud Sudan. In assenza di politiche governative, con scuole off limits e lavori sottopagati, è l'Unhcr a tentare la via (anche social) all'integrazione

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 12 febbraio 2020
Khaled SaidDI RITORNO DAL CAIRO

Il Nilo e i grattacieli della città sono nascosti da una fitta nebbia sopra il ponte 6 Ottobre al Cairo, una delle arterie che porta al quartiere Zamalek, sede di ambasciate e uffici internazionali.

Qui c’è anche una delle quattro sedi dell’Unhcr presenti in Egitto: «Tre sono qui al Cairo e una ad Alessandria», ci dice Radwa Sharaf delle relazioni pubbliche dell’agenzia che fa campo alle Nazioni unite. Il personale della sicurezza è ovunque, sorvegliano i piani tra un tè e l’altro verificando chiunque entri nell’edificio.

L’EGITTO OSPITA circa sei milioni di immigrati secondo l’Oim, la metà dal Sudan e dal Sud Sudan, dove la guerra civile ha provocato l’esodo di oltre due milioni di rifugiati. Solo nel 2019 circa 29mila immigrati hanno avanzato richiesta di asilo politico, stando ai dati dell’Unhcr, molto più bassi perché riferiti ai soli migranti registrati.

«Abbiamo 129.426 siriani di cui 122.416 richiedenti asilo e 7.010 rifugiati. I sudanesi sono circa 47mila di cui 25mila richiedenti asilo», afferma Radwa elencando i numeri a memoria. «Siamo convinti che i numeri siano molto più alti, non tutti vengono a registrarsi nelle nostre sedi per prendere la residenza». Le altre nazionalità più presenti sono i sud-sudanesi, gli eritrei e gli etiopi. I siriani arrivano con i corridoi umanitari, mentre gli altri, in particolare i sudanesi, attraversano illegalmente il confine sud.

I numeri sono alti, a dimostrazione che i flussi migratori sono preponderanti anche nella sponda sud del Mediterraneo.

«Una volta fatta la registrazione – spiega Radwa – ci sono tre soluzioni durature offerte ai migranti: la prima consiste il rientro nel loro paese di origine, la seconda è il ricollocamento in un altro Stato e infine la terza opzione è quella dell’integrazione ma non è molto diffusa».

Si parla poco di integrazione. Le difficoltà economiche in cui versano gli egiziani rischiano di alimentare sentimenti discriminatori contro gli immigrati in caso di misure di integrazione percepite come onerose dalla popolazione. Una linea politica, quella adottata da al-Sisi, molto simile a quella dei paesi europei dove il tema migrazione è sempre scottante.

TUTTAVIA, UN’INCHIESTA pubblicata ai primi di gennaio dalla Ap ha evidenziato l’incremento di attacchi a sfondo razziale nel paese, registrando un aumento di sentimenti xenofobi contro gli immigrati di origine sub-sahariana. A farne le spese maggiori, si legge nel testo, sono le donne, prese di mira con insulti e abusi sessuali soprattutto nei luoghi di lavoro.

Secondo l’inchiesta dell’Ap la maggior parte degli immigrati vive in quartieri poveri dove cercano di dare vita a piccole comunità per proteggere le famiglie e i nuovi arrivati, più vulnerabili ad attacchi e violenze. Molti di loro vengono sfruttati nei negozi o nelle aziende con salari molto bassi per intere giornate di lavoro durante le quali subiscono costanti trattamenti denigratori.

Tuttavia, Radwa afferma che all’Unhcr non dispongono di dati o rapporti che possano confermare un aumento o una diminuzione degli episodi di razzismo, ma sono molte le iniziative messe in campo contro la discriminazione razziale.

«Per sensibilizzare la popolazione – continua – cerchiamo di portare avanti anche campagne social attraverso personaggi famosi come attori e cantanti che abbracciano la causa dei rifugiati e cercano di fare informazione sull’argomento».

CON ARIA SODDISFATTA ricorda che l’hashtag #isirianiilluminanolEgitto è stato trend topic su Twitter, ma confida che «per i siriani l’integrazione diventa più semplice rispetto agli immigrati africani, perché c’è una sorta di fratellanza solidale tra gli appartenenti al mondo arabo». Oggi molti di loro lavorano nel settore della ristorazione, principalmente come cuochi o pasticceri.

Di al-Sisi e del governo non ne parlano: «I rifugiati tendono a vivere per conto loro – ci spiega Radwa – Non si interessano alla vita politica egiziana, cercano di aiutarsi a vicenda per trovare un lavoro o un appoggio dove stare». Trovare lavoro non è facile, soprattutto per chi aspira a qualcosa in più rispetto a una mansione come manodopera a basso costo.

«Recentemente abbiamo organizzato un workshop su come curare una mostra per aiutare gli artisti che hanno difficoltà a entrare nel mercato del lavoro – afferma Radwa – Abbiamo esposto le opere di artisti provenienti da sei nazionalità diverse, per dieci giorni. Sono venute tante persone, molte delle quali hanno pure acquistato alcune opere».

L’INTEGRAZIONE però avviene anche attraverso l’accesso all’istruzione pubblica, non garantita a tutti gli immigrati, ma solo a chi proviene dal mondo arabo «perché il sistema scolastico egiziano è diverso e l’ostacolo della lingua è molto grande», conferma Radwa. Chi non è arabo, dunque, non può iscriversi a una scuola pubblica rimanendo ancora più escluso all’interno della società.

Il modo migliore per alimentare le distanze e le disuguaglianze tra gli immigrati e gli egiziani.

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