«Per me è lì, al nord, il limite delle terre conosciute a Occidente. Oltre il lontano Paris-X, detto anche Nanterre, dove andavo con il treno Rer, tutta la mia vita fin qui si è svolta in un territorio compreso, in linea di massima, tra La Fourche, La Chapelle, La République, La Trinité. Barbès ne è il centro». È una geografia dell’anima quella che compone Paul Smaïl in Vivere mi uccide (minimum fax, traduzione di Lorenza Pieri, pp. 162, euro 16) dando voce alle complesse traiettorie esistenziali di due fratelli, Paul e Daniel, nati nel 18° arrondissement di Parigi da genitori arrivati dal Marocco. Due giovani beur, francesi di origine araba come si dice quando non si ricorre alla brutta definizione di «immigrati di seconda generazione», quasi che il viaggio che si compie per giungere nel Paese sia qualcosa che resta nel sangue e di cui forse mai ci si potrà liberare del tutto.

BARBÈS, DOVE CRESCONO i fratelli, non è una banlieue, anche se esprime, nel cuore del quadrante Nord della capitale, uno stato d’animo particolare, quasi l’istinto di un ponte, di un luogo d’incontro tra la cultura araba e i ritmi della metropoli transalpina. Qui covava la rivolta, e la repressione, negli anni della Guerra d’Algeria e mezzo secolo più tardi germogliavano i semi del cambiamento che avrebbero portato ai movimenti per la democrazia a Rabat, Tunisi e Algeri. Qui, ben prima del successo planetario della world music, si potevano rintracciare le tracce del nuovo sound che cresceva nel Maghreb, su tutti il raï, ma anche far incontrare il pubblico dell’elettronica con i classici di Farid al-Atrash, Umm Kulthum o Fairuz.

Ma, proprio come in periferia, anche a Barbès – il romanzo uscì in Francia alla fine degli anni Novanta -, quello di un confronto sereno, ancor prima di un aperto dialogo o di una compiuta e reciproca integrazione, restano spesso solo degli ottimistici auspici. Lo sa bene il piccolo Paul che le vessazioni quotidiane subite da parte dei compagni di scuola, français de souche o di origine africana o araba proprio come lui, condurranno ben presto sul ring di una palestra di boxe. Imparare a difendersi non impedirà al giovane di inseguire la sua grande passione per i libri, fino al traguardo di un dottorato in letterature comparate, sebbene conquistato grazie ad una lunga lista di lavoretti, primo fra tutti la consegna di pizze a domicilio.

INTORNO, RESTA IL CLIMA di sospetto, i controlli ricorrenti da parte delle forze dell’ordine, ma anche la difficoltà di far quadrare le cose tra le spinte che muovono i due fratelli e il loro contesto famigliare d’origine che, per quanto laico, la «re-islamizzazione» politica è ancora solo un annuncio, risente di un certo tradizionalismo. Per questo Daniel, l’altro fratello, che ha scolpito il proprio corpo come un bodybuilder, nasconde a tutti il suo lavoro nei peepshow, ma ancor di più il proprio amore per un uomo, un turco che opera nello stesso settore e con il quale si trasferirà in Germania. Paese in cui, come spiegherà a Paul, poteva camminare per strada la notte senza che la polizia lo fermasse ogni cinque minuti per chiedergli i documenti.

Tra l’inseguire i propri sogni liberamente e il peso spesso opprimente della società e delle radici famigliari, i personaggi di Paul Smaïl – pseudonimo dello scrittore e musicista Jack-Alain Léger, morto suicida nel 2013, a 66 anni – definiscono una terra di confine dove le frustrazioni possono tradursi in violenza come in occasioni di riscatto. Un orizzonte che l’autore aveva già delineato nel suo testo più noto, Alì il magnifico (Feltrinelli), bestseller in Francia nel 2001, che descrive la discesa agli inferi di un giovane beur che cova nella banlieue la sua voglia di vendetta verso un mondo che lo rifiuta e al tempo stesso lo teme.