Nel giorno in cui l’Istat ha registrato il record dell’inflazione al 6,9% sull’anno, mai così alta dal 1986, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha esposto ieri il contenuto della lotta di classe in corso anche nel nostro paese. Da un lato, ci sono tutti i sindacati, e una parte della maggioranza (Pd e 5 Stelle ma in ordine sparso, LeU) che chiedono un aumento dei salari che sono cresciuti meno in Europa tramite il rinnovo dei contratti nazionali scaduti (il 62% del totale, oltre 7 milioni 700 mila dipendenti, dati Cnel). Dall’altro lato, c’è l’orientamento di una parte del governo Draghi, il suo cervello, e di tutta la compagine confindustriale per esempio. Da quelle parti si prevedono solo aumenti una tantum delle retribuzioni, come accade per esempio in questi giorni nella scuola, e al massimo aumenti simbolici per i contratti nazionali.

NELLE CONSIDERAZIONI all’assemblea annuale di Via Nazionale ieri Visco non ha solo illustrato il suo orientamento nell’attualepolitica economica. Ha chiarito la ragione di fondo della politica che ispira il governo. Si continuerà sulla stessa strada: aumenti occasionali, dunque bonus e incentivi. Tutto per parare i colpi della crisi energetica. Ed evitare incrementi salariali pluriennali e programmati. Perché? Bloccare la possibilità per cui si inneschi la spirale tra salari e prezzi. Come negli anni Settanta. Anche oggi l’inflazione potrebbe crescere e mangiare i salari, rendendo inutili gli eventuali aumenti e peggiorando drasticamente la crisi. La tesi del governatore ha almeno un merito: esplicitare cosa farà questo governo e i prossimi, a meno che non ci sia un conflitto di classe generalizzato capace di spostare l’equilibrio di potere esistente. L’uso politico del rischio spirali-prezzi sarà dunque usato per fare pagare ai lavoratori il prezzo della crisi.

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SONO FIOCCATE le contestazioni. Quella per esempio di Francesca Re David, ex Fiom e segretaria confederale Cgil, che ha sottolineato il fatto che l’inflazione attuale non è determinata da un aumento dei salari, idea piuttosto avventurosa in un paese come l’Italia. L’inflazione è il risultato dealla ripresa produttiva a singhiozzo causata Covid che ha spezzato le catene di approvvigionamento globali. Poi c’è stata la speculazione sui prezzi delle materie prime e sull’energia. L’economia, già assediata dal rischio stagflazione (aumento generale dei prezzi e calo della crescita) e dalla guerra russa in Ucraina, non cresce perché ci sono redditi bassi e precariato record.

IN PIÙ, in un paese dove Confindustria considera il «reddito di cittadinanza» come il suo «competitor» è chiaro che si preferisce il lavoro servile al capitalismo moderno. «L’unico problema che vedo – ha commentato il segretario generale della Cgil Maurizio Landini – è aumentare il potere d’acquisto dei salari, altro che una tantum. Bisogna fare una riforma fiscale e cambiare le leggi che hanno aumentato la precarietà in questi anni». A quando, dunque, una battaglia contro il Jobs Act e il suo mondo?

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PER COMPRENDERE le parole di Visco va considerato tutto il dibattito sulla natura dell’inflazione e il suo rapporto con i salari. E qui la tesi di Bankitalia può essere rovesciata. Josh Bivens dell’Economic Policy Institute ha confrontato i fattori che hanno guidato la crescita dei prezzi tra il 1979 e il 2019 con quelli che hanno contribuito all’inflazione negli Stati Uniti dal secondo trimestre del 2020. Il rapporto tra il costo unitario del lavoro (salari/produttività) i e i profitti aziendali si è invertito dal 2020 con il Covid. I salari sono cresciuti meno dell’8% mentre gli utili aziendali quasi del 54%. Anche nell’Eurozona sono i profitti, e non i salari, ad avere contribuito all’aumento dei prezzi a partire dal terzo trimestre del 2021. La crescita dei salari nominali è rimasta contenuta.

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SONO I LAVORATORI a sopportare il peso dello shock inflazionistico in corso, non le grandi imprese o i patrimoni. Evocare il rischio di una spirale salari-prezzi è dunque, per ora, infondato. Il rischio è un altro: un aumento della conflittualità sociale che reagisce al forte squilibrio delle condizioni sociali che ha permesso l’impennata dei profitti e delle disuguaglianze. Ciò che si vuole evitare è un tentativo di spostare l’equilibrio di classe degli ultimi cinquant’anni.