L’aumento del costo dell’energia e dei principali prodotti alimentati causato dal boom dell’inflazione indotto principalmente dall’aumento dei prezzi delle materie prime e dall’ingorgo nelle catene del valore globale non sta solo aumentando i costi per le imprese, ma sta peggiorando il problema dei bassi salari in Italia. Fermi sostanzialmente dal 1990, e funestati dal precariato di massa, oggi dovranno pagare le conseguenze degli aumenti record. È uno degli effeti del secondo tempo di una crisi sottovalutata dagli ultimi due governi, il «Conte 2» e quello di Draghi.

IN QUESTA CORNICE ieri è esploso un nuovo conflitto verbale a distanza tra il segretario della cgil Maurizio Landini che ha chiuso la conferenza di organizzazione del sindacato a Rimini e il presidente di Confindustria Carlo Bonomi. Secondo quest’ultimo non è vero che l’indice dei prezzi armonizzato (Ipca) escluda dal calcolo degli aumenti contrattuali i prezzi dei beni energetici importati. «Non è così – ha detto – Il prezzo dei beni energetici c’è, ma viene spalmato nel tempo per evitare che scarti bruschi come quello attuale rendano l’indice ballerino. Se si vogliono innalzare i salari subito, la strada sono contratti di produttività in ogni impresa, addizionali al contratto nazionale».

A QUESTE parole è seguita la reazione di Landini secondo il quale servirebbe una revisione dell’Ipca che ignora il «caro energia». In questa prospettiva non si può separare la contrattazione nazionale da quella aziendale, né chiedere un aumento della produttività di settore ignorando il problema macroeconomico che incide sull’intera economia nazionale. «Di fronte al problema dei contratti nazionali e della crescita del salario e dell’inflazione che cresce, Bonomi risponde dicendo no, non va cambiato nulla, perché l’unico luogo in cui devono crescere i salari con la produttività è laddove si fa la contrattazione aziendale. Questa è una cosa non accettabile – ha detto Landini – In un paese con tante piccole e medie imprese, dove per la maggioranza dei lavoratori non c’è contrattazione aziendale, se non sono i contratti nazionali che tornano ad avere un’autorità salariale e a porsi il problema di aumentare il valore reale dei salari, questo vuol dire accettare la programmazione e la riduzione dei salari».

NEL RAGIONAMENTO di Landini c’è un’idea di politica dei salari assente perlomeno dall’abolizione della scala mobile confermata da un referendum. Eravamo in tutt’altro ciclo economico, quando la crisi petrolifera del 1973 aveva innescato una lunga spirale in cui gli aumenti salariali erano mangiati dall’inflazione. Da quella situazione si uscì sconfiggendo la resistenza sindacale, creando un nuovo consenso sulla stabilità dell’inflazione e contro l’aumento dei salari . Oggi l’aumento dell’inflazione non sembra intrecciato all’aumento dei salari. Da qui le ripetute richieste di aumentarli.

BONOMI ha parlato di un «riformismo competitivo», intendendolo come «non interventi a margine, ma riforme efficaci, che rendano moderno e competitivo il paese, giustizia e concorrenza in primis». Landini ha risposto: «Le riforme non devono essere competitive ma redistributive. Competitive per chi? Non è che manca la competitività, ce ne è anche troppa nel modo del lavoro». Se Bonomi, a suo modo, interpreta l’approccio neoliberale «abilitante» del piano di ripresa e resilienza, il mantra del governo Draghi, Landini sembra indicare un modello diverso ma sconosciuto alle forze politiche esistenti in parlamento. La questione è già emersa nello sciopero generale di Cgil e Uil del 16 dicembre.

DALL’ASSEMBLEA organizzativa la Cgil ha rilanciato una battaglia sui diritti e sulla partecipazione ispirata al principio della «codeterminazione», a cominciare dalle imprese. Per il sindacato il 2022 sarà un «anno antifascista» costellato da una serie di iniziative che arriveranno al prossimo 9 ottobre, anniversario dell’assalto neofascista alla sede di Corso Italia a Roma. Il governo non ha dato seguito alla richiesta di mettere fuorilegge l’organizzazione responsabile dei gravi fatti.