Giovedì 19 gennaio la Francia è stata attraversata dalle mobilitazioni contro la riforma delle pensioni fortemente voluta dal presidente Macron. Ma qual è il contesto di questa riforma? “Riforma delle pensioni” è diventata una cauta espressione per non dire “taglio delle pensioni”. La foga di diminuire l’assegno pensionistico pare particolarmente entusiasta dopo che col Trattato di Maastricht gli Stati europei hanno assunto degli obblighi più stringenti riguardo i bilanci pubblici; per cui si succedono ciclicamente una serie di provvedimenti normalmente destinati a rendere il calcolo dei contributi lavorativi più svantaggioso ai fini dell’importo pensionistico e ad innalzare la età pensionabile. La Francia in specie ha avuto nella sua storia recente le seguenti “riforme”: con Balladur nel 1993 (lo stesso anno abbiamo avuto una legge analoga in Italia ), seguito dal tentativo di Juppé di estendere il sistema nel 1995, fallito grazie all’opposizione di alcuni settori chiave; riforma Fillon 2003, Woerth 2010, Touraine 2013. Le prime tre da parte di maggioranze di destra, l’ultima da parte del PS di Hollande.

Quella di Macron sarebbe la quinta puntata di questa serie; era già stato proposto un testo nel dicembre 2019, ma tutto si era arenato fra le proteste sindacali e il Covid. Adesso a gennaio 2023 il “Presidente dei Ricchi” torna alla carica.
Le ragioni di tali “riforme” (simili un po’ in tutto il panorama politico europeo e non) sono di natura duplice: da un lato diminuire le spese dello Stato, dall’altro ampliare la previdenza privata, aprendo occasioni di mercato. Invece nel dibattito pubblico si esibisce una favoletta morale: la difesa della sostenibilità del sistema pensionistico (memorabili i miti del “buco” dell’INPS da noi) sarebbe la tutela delle generazioni future. Si considerano i contributi un po’ come monete fisiche che vengono messe da parte per essere dissotterrate una generazione successiva, per cui se il lavoratore ne prende troppe senza averne aggiunte altrettante, i lavoratori di domani non ne avranno abbastanza.

Ma non è vero niente: i contributi versati oggi sono una redistribuzione del reddito prodotto attualmente a favore di chi non lavora più. È ragionevole ricorrere ai contributi versati come uno criteri per l’importo dell’assegno pensionistico sulla base dei contributi; irrigidire tale principio per diminuirle alla maggioranza dei lavoratori è una strumentalizzazione tanto odiosa quanto concettualmente infondata.
Ma la dimostrazione più eloquente di quanto infingarda sia la favoletta morale sulla sostenibilità della previdenza è che il problema delle giovani generazioni saranno assegni troppo bassi per aver lavorato a stipendi da fame e con precarietà, versando pochi contributi, e coloro che sostengono le famose riforme sono gli stessi che si adoperano per la precarizzazione dei rapporti lavorativi.

Anche inseguendo una visione da ragionieri, c’è davvero necessità di impoverire ulteriormente i pensionati futuri? Forse il più autorevole organo pubblico francese a tal riguardo è il Conseil d’Orientation des Retraites (COR), un ente statale che disegna scenari in merito all’invecchiamento della popolazione, la spesa previdenziale futura, ecc. Nella sua relazione del settembre 2022 scrive: “a lungo termine, dal 2032 al 2070, nonostante l’invecchiamento progressivo della popolazione francese, la parte delle spese pensionistiche in relazione alla ricchezza nazionale sarà stabile o in diminuzione”; per il calcolo sfavorevole del rapporto contributi-pensioni delle scorse “riforme” e per il ritmo più lento di aumento delle pensioni (indicizzate all’inflazione) rispetto al livello di vita del resto della popolazione (che beneficerà degli aumenti di produttività). Il ministero dell’Interno stima che oltre un milione di persone abbiamo sfilato in corteo in tutto il paese (circa due per gli organizzatori), di cui 800mila solo a Parigi; per la prima volta da oltre un decennio le principali otto confederazioni francesi sono state unite. Il “presidente dei ricchi” non avrà vita facile. La Francia si batterà.