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Il Pd ci «prova» con le pensioni

Il Pd ci «prova» con le pensioniIl vicesegretario del Pd Maurizio Martina

La Battaglia sui 67 anni Il vicesegretario Pd Martina apre alla modifica dell’innalzamento. Ma senza il consenso di Padoan sono parole al vento. La Consulta dissinnesca la mina rivalutazione: legittimo il decreto Poletti del 2015

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 26 ottobre 2017

Scampato il pericolo sulla rivalutazione delle pensioni costituito dalla sentenza della Corte costituzionale, è toccato a Maurizio Martina aprire alla modifica dell’età pensionabile. Alle 11 e 37 l’agenzia Ansa batte la seguente dichiarazione: «Non tutti i lavori sono uguali. E non tutti i lavoratori hanno la stessa aspettativa di vita per le mansioni che fanno. Le norme volute dal governo Berlusconi e poi modificate dal governo Monti sull’aumento automatico dell’età pensionabile vanno riviste e per questo serve un rinvio dell’entrata in vigore del meccanismo. I tempi per una discussione parlamentare a partire dalle commissioni preposte ci sono tutti ed io credo sia giusto prendersi tutto lo spazio utile per aggiornare questa decisione». Il problema è in quale veste la dichiarazione è stata fatta. Come ministro o come vicesegretario del Pd? Il passaggio sulla «discussione parlamentare» aiuta a rispondere: da vicesegretario Pd. Che non vuole appoggiare una norma palesemente ingiusta, specie nell’imminenza della campagna elettorale.

IL GOVERNO DUNQUE rimane l’unico ad appoggiare l’aumento di 5 mesi certificato martedì dall’Istat che porterà l’età pensionabile a 67 anni dal primo gennaio 2019. Nessuno ad oggi mette in dubbio che il ministro Padoan cambi idea e che da qui al 31 dicembre – come prevede la legge Fornero – arriverà la nota congiunta dei direttori dei ministeri di Economia e Lavoro che renderà legge l’innalzamento.

PER IL MINISTERO dell’Economia e per la Ragioneria generale dello Stato anche solo congelare la norma in attesa di valutarla o modificarla deve essere accompagnato da una copertura nella legge di bilancio: l’annullamento dei cinque mesi è quantificato tra gli 1,2 e gli 1,5 miliardi; le cifre si ridurrebbero in caso di esenzioni per alcune categorie di lavoratori come citato da Martina, ma il costo sarebbe comunque ragguardevole rispetto al (quasi) zero previsto per il capitolo pensioni.

L’IDEA DI UNA NORMA-PONTE che congeli la decisione al prossimo giugno – e quindi al prossimo governo – ieri incontrava ancora la netta contrarietà dei tecnici del ministero dell’Economia che stanno ancora limando il testo della manovra.

COME SULLA CONFERMA di Ignazio Visco alla Banca d’Italia la mossa del Pd – ieri anche Guerini e tutta la mozione Orlando hanno dichiarato sulla stessa onda di Martina, mentre Renzi non ha affrontato il tema – pare essere un semplice dissociarsi da una decisione da addebitare all’attuale governo senza poter incidere realmente.

LA SORTITA DI MARTINA ha anticipato – o forse atteso l’indicazione non ufficiale – la sentenza della Corte Costituzionale sul decreto del governo sulle rivalutazioni delle pensioni. Si trattava di una vera e propria mina contabile: il bonus Poletti sulla cosidetta perequazione con cui il governo Renzi nel 2015 rivalutò parzialmente le pensioni superiori a 3 volte il minimo per rispondere alle indicazioni della stessa Consulta che aveva bocciato lo stop all’adeguamento al costo della vita voluto dal governo Monti per il 2012 e 2013. Il ricorso di molti pensionati – appoggiati dai sindacati – chiedeva la rivalutazione completa per tutti: il costo era stimato fra i 16 e i 20 miliardi, mentre un parziale accoglimento del ricorso portava ad un costo stimato in 8 miliardi.

PER I GIUDICI INVECE il decreto è legittimo perché «realizza un bilanciamento non irragionevole tra i diritti dei pensionati e le esigenze della finanza pubblica». Il provvedimento coinvolse circa 6 milioni di pensionati. Resta dunque in vigore fino al 31 dicembre 2018 la scalettatura prevista dal meccanismo di perequazione messo a punto da Poletti che prevede un adeguamento al 100 per cento per gli assegni fino a 3 volte il minimo; del 40 per cento tra 3 e 4 volte; del 20 per cento tra 4 e 5; del 10 per cento tra 5 e 6; nullo per importi oltre sei volte il minimo.

DAL 2019, INVECE, e su questo il governo avrebbe dato garanzie ai sindacati – le uniche della trattativa sulla Fase 2 delle pensioni – tornerà in vigore il meccanismo di recupero dell’inflazione cosiddetto Prodi risalente al 2000. Le pensioni in questo modo saranno adeguate al 100 per cento degli indici Istat per importi fino a 3 volte il minimo, del 90 per cento tra 3 e 5 volte il minimo Inps ed del 75 per cento per gli importi oltre le 5 volte.

DELUSI I SINDACATI. «Prendiamo atto della sentenza, resta però irrisolto il problema del reddito dei pensionati, che in questi ultimi anni ha perso sensibilmente di valore e non è stato degnamente rivalutato», commenta il segretario generale Spi Cgil Ivan Pedretti.

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