Per la terza volta in quattro anni cambiano i requisiti per la pensione anticipata. La promessa elettorale di «cancellare la Fornero» continua a essere tradita dalla Lega. Dopo Quota 100 e Quota 102, per il 2023 partirà Quota 103: serviranno 41 anni di contributi e 62 di età. Per tutti gli altri tornerà la riforma Fornero che richiede 67 anni di età mentre il ministro Giorgetti già ipoteca un ritorno all’austerità previdenziale.

Ora c’è anche la dichiarazione esplicita di Claudio Durigon: colui che mise in piedi Quota 100 (62 di età e 38 di contributi) con il primo governo Lega-M5s tornato col quello Meloni dopo essersi dovuto dimettere da quello Draghi per le inchieste sull’Ugl e la proposta di ridare il nome Mussolini a un parco di Latina. Quota 100 è stato un flop conclamato: doveva mandare in pensione un milione di persone (e creare almeno mezzo milione di nuovi posti di lavoro sostitutivi) e ne ha mandati solo un terzo. Poi il governo Draghi alzò l’asticella a 102: sempre 38 di contributi ma almeno 64 di età. Durigon ora ci informa che ha mandato in pensione solo 8 mila lavoratori e con la sua proposta «l’anno prossimo ne andranno 50 mila». Vedremo, ma di certo finora lui non ha azzeccato una previsione. Anche perché le stime della Ragioneria sono sempre esagerate sulle possibili uscite per richiedere coperture più alte, coerentemente con l’austerità.

Nel frattempo è sicuro che Quota 103 escluderà moltissimi lavoratori che hanno raggiunto i 41 anni di contributi. «Richiedendo 62 di età, penalizza i lavoratori precoci – protesta l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano – . Ad esempio coloro che hanno cominciato a 15 anni, invece di andare in pensione a 56 anni di età, dovranno attendere almeno altri 5 anni a meno che non siano stati licenziati, siano invalidi o accudiscano un coniuge, potendo rientrare nell’Ape sociale: una vera iniquità», conclude Damiano.
Anche la Cisl protesta. Quota 103 «non risulta coerente con le richieste del sindacato portate al tavolo con Meloni Calderone, serve evitare lo scalone di 5 anni da gennaio. Leggiamo di incentivi per rimanere al lavoro mai discussi con noi e questo rimanda all’esigenza urgente di una trattativa», attacca il segretario confederale Ignazio Ganga.

Sulle pensioni in essere invece gli assegni da gennaio 2023 saranno più alti del 7,3% per chi ha una pensione di meno di 1.500 euro netti. Nessun regalo del governo Meloni: è semplicemente l’effetto della perequazione degli assegni rispetto all’inflazione. Tagliata da tutti i governi per fare cassa, dallo scorso anno è tornata alla versione originaria decisa dal governo Prodi del 1998: perequazione al 100% per gli assegni fino a quattro volte il trattamento minimo Inps, pari 524,34 euro lorde per il 2022. Scende al 90% per gli assegni pari a 5 volte il minimo e al 75% per quelli da 6 volte il minimo.

Dopo decenni di mancata inflazione, la perequazione produrrà costi per lo stato stimanti in 25 miliardi da qui al 2025 dal ministro Giorgetti, lanciando un falso allarme. Scommettiamo che quando l’inflazione scenderà nessuno parlerà di risparmi per lo stato?