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Pelè, l’uomo, il re, le molte vite del bambino divenuto leggenda

Pelè, l’uomo, il re, le molte vite del bambino divenuto leggendaPelè festeggia il titolo mondiale del Brasile dopo la vittoria sull’Italia per 4-1, 1970 – foto Ap

Sport Nel libro di Stephane Cohen, per Giunti, l’icona e le sue contraddizioni

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 30 settembre 2023

«Sei l’eccezione che conferma la mia regola. Sei l’unica celebrità che, invece di durare 15 minuti, durerà 15 secoli». Così Andy Warhol sentenziò nel 1977 facendo un colorato ritratto di Pelè con un pallone appoggiato sulla fronte, intuendo il suo carattere di icona pop globale, di leggendario divo mondiale del calcio, di primo giocatore-prodotto che ha vissuto grazie alla sua immagine conosciuta in tutto l’universo. Su questo e altri aspetti personali meno scandagliati della vita di Edson Arantes do Nascimiento per tutti O Rei, scomparso lo scorso 29 dicembre a 82 anni, si concentra Pelè, l’uomo, il re del giornalista francese Stephane Cohen, in uscita da Giunti (pg.320, euro 20).

Il fuoriclasse brasiliano ha scritto (con l’aiuto di due cronisti sportivi, Orlando Duarte e Alex Bellos) nel 2006 la sua autobiografia (tradotta in italiano con Pelè, io l’unico re (Mondadori, pg.330, euro 17) raccontando azioni fantasmagoriche, bagni di folla e retroscena privati fino a riportare, in appendice, tutte le 1367 partite ufficiali disputate e soprattutto i 1283 gol segnati con data, avversario e risultato finale. E la sua eredità spirituale, Why Soccer Matters, (Celebra, 2014, 304 pg, euro 22) passando in rassegna 60 anni di calcio giocato, indirizzato alle giovani generazioni trasmettendo le sue esperienze e glorificando la forza positiva del futebol. In più ha collaborato a una mezza dozzina di libri, compreso un giallo Delitto alla Coppa del Mondo (Mondadori, 1990). E una smodata quantità di film, apparizioni tv e canzoni in suo onore o sue (era un discreto chitarrista autodidatta).

TORNANDO al libro di Cohen, una minuziosa e documentata ricostruzione della vita della superstar di Tres Coracoes, la piccola località a nord di Rio de Janeiro chiamata così per un omaggio alla Cappella dei Sacri Cuori di Gesù, Giuseppe e Maria, dove nacque in una baracca malandata il 23 ottobre 1940.

Trasferitosi a tre anni a Bauru, figlio di Dona Celeste e di Joao Ramos do Nascimiento detto Dondinho, giocatore semi professionista di talento, un centravanti alto un metro e ottanta (che marcava tantissime reti, in grado di segnare cinque gol di testa in una partita, l’unico record che la sua fortunata prole non riuscirà ad eguagliare), inserviente in un sanatorio dopo essere stato fermato da un infortunio al ginocchio nell’anteguerra che riverserà tutta la passione e le conoscenze tecniche al primogenito.

Così Dico, il soprannome familiare usato nelle partitelle in campetti improvvisati, quel ragazzino nero gracile e affamato, scalzo e con una palla di stracci, diventerà Pelè (e poi Gasolina, Alemao, Perla Nera e altri appellativi vari), il più giovane debuttante nel Santos (a 15 anni e undici mesi), il più giovane vincitore della Coppa del Mondo (a 17 anni e otto mesi) nel 1958 col suo gioco creativo e spumeggiante, lanciato in tutto il globo terracqueo dalle prime telecronache in bianco e nero, con sombrero (il pallonetto sulla testa dell’avversario), tunnel, dribbling e tabelinhas (i doppi uno-due prima di piede e poi di testa col compagno Vavà che lasciarono a bocca aperta sovietici e svedesi).

Vincerà altre due World Cup, nel 1962 e nel 1970, quello del famoso colpo di testa su Burgnich, restando in aria per un tempo interminabile, nella finale Brasile-Italia 4-1.

Le partite, i «mille gol», la politica, gli interventi a favore dei ragazzini di strada

NEL LIBRO c’è una suddivisione della vita in due, da una parte la famiglia, gli affetti più cari, la sua terra natìa («Pelé, quattro lettere che hanno unito il Brasile al mondo», copyright Lula) dall’altra l’uomo pubblico, la star planetaria, l’ambasciatore del calcio, l’atleta più celebre della storia moderna.

La leggenda racconta che in Nigeria venne dichiarata una tregua di 48 ore ai tempi della guerra con il Biafra perché tutti, da entrambi gli schieramenti, potessero vederlo giocare (ma qui Cohen non è riuscito a trovare prove documentali).

Ha provato a convertire gli Stati Uniti al calcio, col suo favoloso contratto coi Cosmos di New York nel 1975, una diretta discendenza delle massacranti tournée del Santos in giro per il mondo dove difensori assatanati inseguivano e picchiavano l’ex ragazzo di strada dai colpi strabilianti diventato multimilionario per i valigioni di dollari che riscuoteva dappertutto, il suo cachet.

Dal 1959 al 1974, giocò all’estero più di 350 match in tutti i continenti (oltre al campionato, la nazionale e gli incontri per beneficenza). Il pianeta voleva vedere il Pelè Football Show, la sua facilità di gioco, il repertorio di finte, tiri al volo, azioni ubriacanti e i magnifici gol.

Lui però cominciava a non poterne più di botte ripetute, di gestire un forte carico emotivo, di giocare a perdifiato senza divertirsi più. Col suo perenne sorriso smagliante, continuava ad accumulare redditizi contratti pubblicitari, a frequentare il jet set internazionale accompagnandosi con donne giovani e belle nonostante il matrimonio con Rosemari, i rapporti difficili coi figli, l’attenzione verso l’infanzia abbandonata, i criancinhas, i bambini di strada senza istruzione né futuro, ai quali dedicherà il suo Milesimo, il gol numero mille segnato in una notte contro il Vasco de Gama.

«Pelé, quattro lettere che hanno unito il Brasile al mondo»Lula

NEL 1993 PROPRIO il massacro della Candelaria (sette morti e diversi feriti da parte di squadroni speciali militari) lo spingerà ad accettare l’incarico di ministro dello sport nel governo Cardoso, il primo nero a essere nominato a un dicastero dove resisterà 40 mesi combattendo con la corruzione e la scarsa trasparenza della gestione Teixera-Havelange realizzando progetti per l’infanzia, le vilas olimpicas, arene sportive per i ragazzi a patto che continuassero a frequentare la scuola. Quell’eterno bambino, re nel campo da gioco e uomo contraddittorio nella vita quotidiana, sarà accusato di non aver preso posizione contro la dittatura, poi darà la sua maglietta col numero 10 a Bolsonaro e Lula.

Proprio quel feticcio straordinario che un torcedor, un tifoso sfegatato, otterrà in regalo e sotterrerà nel suo giardino come le monete d’oro di Pinocchio nel campo dei miracoli, il prezioso simbolo da custodire accuratamente.

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