Emerge una questione, anche alla luce delle elezioni sarde. L’alleanza vincente tra il Pd e il M5s è stata una felice eccezione? Potrà avere un seguito, e su che basi? Il dubbio è che la competizione tra le due forze politiche possa minare la credibilità di un vera alleanza politica e che prevalgano gli effetti distruttivi di un’esasperata conflittualità.

Per provare a rispondere occorre distinguere tra il piano elettorale, con le sue dinamiche competitive specifiche, e la valutazione invece delle caratteristiche sociali, culturali e territoriali degli elettorati del Pd e del M5S. Per il primo aspetto, è indubbio che contino i rapporti di forza: è fisiologico che, anche all’interno di una coalizione, ciascun attore punti ad acquisire le migliori posizioni. Per l’altro aspetto, il dato cambia: e il termine che appare più appropriato è un altro: la complementarietà.

Da molte analisi emerge come tra gli elettorati dei due partiti vi sia solo una parziale sovrapposizione. I dati sono noti, e non è possibile qui riportarli (si veda in dettaglio l’indagine Itanes, pubblicata nel volume “Svolta e destra?”, edito dal Mulino, p. 57; ma analoghi risultati emergono da altre indagini, tra cui quelle di Ipsos): in sintesi, il Pd è (relativamente più) forte tra i pensionati e gli studenti; tra dirigenti, imprenditori e professionisti; tra i laureati e i percettori di redditi medio-alti; debolissimo tra i disoccupati; forte tra gli over 65 e debole nelle fasce centrali di età; molto più forte nelle grandi aree urbane che nei piccoli comuni; mediamente presente in tutte le aree del paese, con una maggiore presenza nelle ex-aree rosse (ma con appena il 26%), debole nel Sud e nelle isole (13-14%).

Viceversa, il M5S, rispetto alla sua forza media nazionale (15%), è forte nella fascia 34-44 anni, tra i detentori di un titolo di studio medio superiore, tra i disoccupati, e tra i percettori della fascia più bassa di reddito (fino a 19 mila euro). E ottiene, nel 2022, il 31% dei voti al Sud e il 26% nelle isole.

Ora, è ovvio che una complementarietà sociale e territoriale non si traduce immediatamente in una potenziale coalizione politica: ne costituisce però una base essenziale, perché permette di individuare i riferimenti comuni di un programma politico. A qualcuno potrà sembrare desueto questo approccio: ma se pure il voto non si divide più sulla base di nette fratture di classe, la posizione sociale conta, e gli interessi contano. Il programma di una futura coalizione alternativa alla destra non può essere un programma “piglia-tutti”, dovrà individuare i propri interlocutori privilegiati, fare delle scelte, ricomporre segmenti e interessi sociali oggi frammentati, ma non incompatibili. Non occorre qui richiamare i capitoli di questo programma: occorre però che, sia il Pd che il M5S, riescano a trasmetterne una visione unitaria. E su questo ancora non ci siamo.

Ci sono poi i dati politici: la stessa indagine sopra citata analizza un indicatore specifico, la propensione al voto per altri partiti. Ebbene, se com’era prevedibile vi è una forte contiguità tra gli elettori della destra, nell’altro campo sono poche le aree di intersezione, ovvero sono pochi quelli che prendono in considerazione la possibilità di votare per un altro partito della stessa area. Il problema è: si tratta di una distanza ideologica incolmabile, o piuttosto indica il terreno di una possibile integrazione in termini di alleanze? La risposta non può che essere affidata alla politica.

È noto come l’attuale elettorato del M5S sia oramai essenzialmente composto da ex-elettori della sinistra. Non è più l’elettorato trasversale del 2013 e del 2018. Ma questo di per sé non semplifica le cose, anzi: è un elettorato che ha alle spalle una profonda rottura con tutto ciò che è stata “sinistra” negli ultimi dieci anni, e non è facile diradare il peso di una diffusa ostilità maturata verso il Pd. La ricucitura non è semplice, ma forse è iniziata, e può e deve essere accelerata, pazientemente. D’altra parte, il Pd deve fare la sua parte: in dieci anni ha subito uno smottamento che ha pochi precedenti nella storia elettorale italiana, un esodo di sei milioni di voti, – un fatto enorme che i nostalgici del partito “riformista” spesso tendono bellamente a rimuovere; il segno di una pesante caduta nella capacità di tenere insieme il blocco sociale che ha sorretto la sinistra nel nostro paese. Rimediare è compito di lunga lena. Anche per questo una strategia di alleanze è oggi senza alternative, ed è illusorio pensare (chiunque lo faccia) che, prima, si debbano modificare i rapporti di forza interni alla futura coalizione.

Proprio la debole sovrapposizione rende marginali i possibili travasi di voto: per crescere Pd e M5S devono guardare altrove, non in casa del vicino. Un’alleanza potrà nascere solo su basi di un reciproco riconoscimento, non di una qualche egemonia precostituita, (che peraltro, presumibilmente, nessuno avrà mai i numeri adeguati ad affermare). Come insegnava una vecchia scuola politica, essere “i più unitari” alla fine paga, ed è anche l’unico modo per provare ad esercitare una effettiva capacità di direzione politica.