Mentre nell’Europa di fine Settecento proliferava il genere della letteratura utopistica dove si tracciavano i profili di una società perfetta al di fuori dello spazio e del tempo, spesso situata in illusorie isole deserte ove si approdava dopo un «felice naufragio», dall’altra parte dell’Oceano, a Apple Island, nome immaginario della reale isola di Malaga, si insediava una comunità di ex schiavi la cui parabola  è raccontata da Paul Harding nel suo ultimo romanzo Un altro Eden (traduzione puntuale di Massimo Ortelio, Neri Pozza, 2023, pp. 224, € 18,00).

Dal 1793, quando Benjamin Honey, nero nato in schiavitù, e sua moglie Patience, irlandese di Galway, introdussero la coltura delle mele nell’isola, riuscendo a creare una piccola comunità multirazziale, fino al 1912 quando questo paradiso perduto venne spazzato via con studiata violenza, Paul  Harding ci accompagna in una grande epopea di esistenze e resistenze. Con una prosa ipnotica e musicale, dalla quale traspare l’angosciosa contiguità con gli abitanti di questa piccola isola di utopia, l’autore avvia il suo romanzo dalla descrizione di  un uragano che pochi anni dopo l’insediamento travolge persone, animali, capanni, alberi e vegetazione, spazzando via molte vite, salvandone alcune e rimodellando la geografia di questo Eden appena ricreato per restituirlo al suo stato primordiale.

Le gesta bibliche di sei generazioni di abitanti di questa arca-isola, distillato di padri angolani e nonni scozzesi, madri irlandesi e nonne congolesi, zii di Capo Verde, Glasgow e Monserrat, oltre che approdo per neri veterani della guerra civile sono ambientate in un luogo selvaggio e anomico, dove uomini, donne e bambini (e tre cani) vivono liberi, sovrani assoluti, condividendo i beni e le (poche) ricchezze oltre al freddo, la fame e il buio. Liberi dal tempo e dal suo computo, nessuno segue il calendario e a nessuno viene  in mente di contare i propri anni e quelli degli altri, anzi è per loro un enigma il fatto che qualcuno possa dare importanza a un simile dettaglio.

I tempi, i saperi e i legami umani di questo luogo, non più allineati con quelli della modernità (capitalistica) trionfante, vengono sconvolti dall’arrivo del missionario e educatore bianco Matthew Diamond, in bilico tra istinti razzisti e empatia verso gli isolani, animato da buoni propositi pedagogici ma visceralmente repulsivo nei confronti dei neri.

Proprio la presenza del missionario attrae l’attenzione del governo che decide di applicare le teorie eugenetiche dominanti all’epoca per evacuare questo «ciottolo nelle gelide secche dell’Atlantico», deportare i suoi residenti e trasformarlo in luogo di vacanza. Medici e giudici, giornalisti e politici, avvocati e scienziati, perseguono l’obiettivo di «bonificare» socialmente quella che chiamano l’Isola dei negri, liberarla dalla «depravazione» degli strani occupanti abusivi, tra i quali Zachary Hand to Go Proverbs, nome profetico di un nero che vive in una quercia cava.

L’arrivo di un «bianco bianco», come sull’isola chiamano gli stranieri per distinguerli dagli isolani di pelle chiara nelle cui vene scorre sangue di ogni continente, segna l’inizio della fine di questa Arcadia degli umili, venuta inesorabilmente a contatto con una civiltà che si autoproclama superiore e portatrice di indiscussi valori universali da contrapporre all’arcaicità del luogo e alle sue leggi naturali.

I «bambini problematici della Natura», secondo la formula utilizzata dall’allarmato governo di fronte all’anomalia selvaggia di una micro-società estranea a disciplina, leggi, codici e morali, imparano invero (anche grazie al sostegno della missionaria Società di soccorso) a dipingere, leggere e contare. Fra loro, Ethan Honey, artista e pittore, di pelle chiara e pertanto più presentabile nel continente; sua sorella Tabitha, che a dieci anni traduce dal latino; e Emily Sockalexis, «dai tratti negroidi e indiani» che tanto spaventano Diamond ma più esperta di lui in algebra e geometria.

Harding racconta con maestria il dolore e il coraggio di questa piccola comunità autonoma abitata da uomini miseri ma uguali, che si alimentano di «sole allo spiedo e nuvole al vapore», capaci «di gettare sul lastrico la povertà e di far morire di fame la fame». Protetta per più di un secolo dalle ostilità provenienti dalla terraferma, Apple Island viene considerata una sciagura dalle comunità limitrofe e una macchia per la reputazione stessa dello Stato.

Si scontra con la «grande trasformazione» in corso, che invade la terra di quella manciata di discendenti dei Benjamin e dei Patience: il mondo civilizzato, con i suoi nuovi ritmi di lavoro, le sue certezze assolute e la sua malcelata missione moralizzatrice, è pronto a cancellare questa variante dell’utopia dalla carta geografica.