«Contro la violenza contro qualsiasi civile – Pro Palestina e non Hamas». È l’incipit di un lungo post che l’attivista egiziano ed ex prigioniero politico Patrick Zaki ha affidato a X nei giorni scorsi. Un post in cui spiega quanto dovrebbe essere ovvio, senza timori dopo le accuse che sono piovute sul ricercatore dalla destra politica e mediatica: «Non sono con Hamas ma sembrerebbe che assumere la posizione di difendere i civili palestinesi vi metterà in una situazione problematica (…). Condannerò sempre qualsiasi violenza contro i civili in tutto il mondo, ma così facendo sarò sempre dalla parte dei deboli e contro fascismo e occupazione».

Lo abbiamo raggiunto al telefono a Mansura, la sua città natale. Vive qui, dopo quasi due anni trascorsi in detenzione cautelare tra il febbraio 2020 e il dicembre 2021, la condanna a tre anni comminata lo scorso luglio con l’accusa di diffusione di notizie false (in riferimento ad alcuni articoli che scrisse sulla vita quotidiana della minoranza copta in Egitto) e infine la liberazione, giunta con la grazia concessagli dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi.
Respingo l’equazione per cui essere a favore della Palestina significa stare con Hamas. Sarò sempre grato all’Italia, ma non significa che io debba dire quello che molti vorrebbero dicessi
Poco fa il Salone del Libro ha annullato la sua partecipazione e il Servizio Missionario Giovani ha parlato di «condizioni cambiate». Ieri «Che tempo che fa» di Fabio Fazio ha rinviato la sua presenza in trasmissione. Come risponde a simili prese di posizione, successive al post sui social network in cui esprimeva solidarietà alle vittime israeliane di Hamas come a quelle palestinesi di Gaza, sotto le bombe da sabato?
Ciò che sta accadendo è profondamente deludente. Ho dichiarato fin dall’inizio che sono preoccupato per tutte le vittime civili, israeliane e palestinesi. Respingo con forza l’equazione secondo cui essere a favore della Palestina significa automaticamente essere a favore di Hamas. Spero di avere l’opportunità di chiarirlo ulteriormente durante le presentazioni del mio libro. Quando parliamo di questo caso specifico, dovremmo dare un’occhiata al contesto storico e a come siamo arrivati a questo punto.

Esponenti del governo e della maggioranza e numerosi giornalisti la stanno attaccando arrivando a dire che è un ingrato e non meritava l’aiuto dell’Italia per il suo caso giudiziario. Posizioni che stonano con la sua vicenda: in Egitto è stato imprigionato per le sue parole. Un’ennesima forma di censura stavolta praticata da una «democrazia liberale»?
In Egitto sono stato perseguitato per tre anni e mezzo a causa delle mie opinioni. È triste che in Italia io venga attaccato per le mie opinioni. Anche se le mie opinioni possono e devono essere discusse e criticate, non posso accettare la campagna di odio contro di me. Sarò sempre grato all’Italia, ma questo non significa che io debba dire quello che molti in Italia vorrebbero che dicessi.

Oggi esce il suo libro in Italia «Sogni e illusioni di libertà» (La nave di Teseo, pp. 256, 19 euro), un libro denso in cui racconta la sua storia, un esempio di attivismo per i diritti umani. Che messaggio vuole trasmettere?
Naturalmente è stato molto difficile rivivere tutte quelle emozioni, perché è un trauma rivivere questi ricordi. Ma vorrei cogliere l’occasione per ringraziare Anna Maria Lorusso per avermi aiutato durante il processo e nel mettere insieme i miei pensieri. Il libro vuole andare oltre la percezione pubblica della mia umile persona, andare oltre il simbolo che il forte sostegno che ho ricevuto mi ha reso e arrivare al cuore del mio lato umano. Spero anche di rassicurare chiunque stia attraversando un momento difficile: un giorno andrà tutto bene, anche se ci vorranno 22 mesi di detenzione preventiva, un anno e mezzo di divieto di viaggio e una condanna al carcere. Se le nostre comunità sono in grado di sostenersi l’un l’altra come è successo a me, riusciremo tutti a superare qualsiasi sfida o ingiustizia.

Il libro si apre con una riflessione sulla speranza e sulla solitudine. Più avanti scrive: «La pressione mediatica e internazionale è importante, soprattutto per i prigionieri nei paesi del terzo mondo». Quanto è stata importante la consapevolezza di avere tante persone che da lontano, in tanti paesi, hanno provato a rompere quella sensazione di isolamento?
Oltre a rendere la prigione meno solitaria, dà una strana sensazione di conforto. L’ho già detto e lo ripeto: il peggior incubo di un prigioniero di coscienza è essere dimenticato. Finché ho continuato a ricevere notizie di persone che parlavano di me e lottavano per la mia libertà, mi sono sentito in mani sicure. In questi momenti è importante capire che sostenere una causa giusta richiede perseveranza, può richiedere anni, ma il più delle volte può letteralmente salvare delle vite.

Aggiungo un altro elemento: quella solitudine è sempre dietro l’angolo, lo vediamo in queste ore. Ed è una solitudine che molti attivisti per i diritti umani provano, soprattutto quando le loro opinioni non sono apprezzate da chi ha il potere di esercitare quella pressione. Che messaggio vorrebbe consegnare loro?
Vorrei dire che il percorso dei diritti umani è spesso solitario, il vostro diritto è quello di dare voce a chi non ha voce. Questa voce rischia di essere attaccata perché va controcorrente, ma è fondamentale per coloro di cui si decide di parlare. A volte fa paura, ma il mio caso è la prova che ci sono migliaia di persone in tutto il mondo disposte a pagare il prezzo della difesa dei diritti umani. Non siete soli, combattiamo insieme a voi.