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Patrick Modiano, spettri antichi e nemici nuovi nel pulviscolo sottile dei ricordi

Patrick Modiano, spettri antichi e nemici nuovi  nel pulviscolo sottile dei ricordiPierre Tal-Coat, «Paesaggio con arcobaleno», 1933

Scrittori francesi un remoto villaggio degli anni ’50, un bambino viene affidato a conoscenti di sua madre: «La strada per Chevreuse», variazione sul tema mnestico-topografico caro a Patrick Modiano, da Einaudi

Pubblicato circa un anno faEdizione del 24 settembre 2023

Ha scritto una volta Patrick Modiano che la topografia di una città è pari a una vita intera che torni alla memoria per strati successivi, come si trattasse delle scritture sovrapposte di un palinsesto. E il palinsesto di Modiano è per proverbio Parigi che ritorna sulla pagina per improvvisi soprassalti da una topografia così inderogabile, dove siti e indirizzi sono precisati con maniaca accuratezza, da indurre tuttavia un effetto di continuo spaesamento: perché quanto più lo spazio si fa riconoscibile (l’ovest parigino della prima infanzia dello scrittore, fra Billancourt e Auteuil, Montmartre della adolescenza) tanto più si rende ambiguo e dileguante il tempo, nel suo caso gli anni della Occupazione nazista cha incombono sulla sua nascita (1945) e sulla condizione di orfano virtuale, figlio di un ambiguo trafficante ebreo, risparmiato dalla Gestapo, e di una attrice belga di seconda fila che con la Kommandantur ebbe più di un contatto. Un simile paradosso, per cui spazio e tempo si derealizzano entrando in cortocircuito, è la matrice dei romanzi di Modiano, sempre uguali e sempre differenti, organizzati tutti quanti alla maniera di un’inchiesta, la classica quête che non ha requie proprio perché ostacolata e regolarmente frustrata nel suo esito, quando Parigi di colpo viene meno trasformandosi in un sinistro labirinto e quando lo scrittore paleografo si misura con un alfabeto urbano che non sa più decifrare.

Della trentina di libri pubblicati da Modiano (quasi esclusivamente racconti lunghi perché la sua misura è veloce ed ellittica, renitente ai materiali saggistici che integrano la forma-romanzo vera e propria) fa giusto eccezione l’esordio mai tradotto purtroppo in italiano, La Place de l’Etoile (1968), un testo sorprendentemente sperimentale, infatti propiziato da Raymond Queneau, che però già ingloba i nomi, le situazioni e i riferimenti ossessivi della futura narrativa il cui testo esemplare è Dora Bruder (1997), l’inchiesta su una giovinetta ebrea «scomparsa» dal centro di Parigi nel dicembre del 1941 per essere avviata al campo di concentramento di Drancy e quindi in Auschwitz, la cui tenebra, persino ovvio rammentarlo, incombe mutamente su Parigi e ne trasforma i luoghi in incubi. Meno sulfurea e molto più evanescente è invece l’atmosfera che intride il suo ultimo racconto La strada per Chevreuse (Einaudi, pp. 128, € 16,00), che ora esce nella versione di Emanuelle Caillat. Dal palinsesto memoriale qui emerge il penultimo strato dove spazio e tempo si ricongiungono a Jouy-en-Josas, un villaggio situato nell’estrema propaggine occidentale della regione parigina, prossimo alla foresta di Rambouillet: qui il piccolo protagonista a nome Jean Bosmans venne «affidato», sul principio degli anni cinquanta, a una famiglia di conoscenti materni. (Di Jouy-en-Josas, sia detto per inciso, non fa menzione il bellissimo album di Gilles Schlesser, Paris dans les pas de Patrick Modiano – Parigramme 2019 – che si limita al perimetro urbano ma ne parla viceversa, con dovizia di citazioni e apporti bibliografici, il sito ufficiale della Mairie del villaggio medesimo). La vicenda si svolge nel breve tratto che appunto congiunge Jouy-en-Josas e l’esclusivo sobborgo di Auteuil il cui epicentro è un misterioso appartamento al 38 di rue du Docteur-Kurzenne.

Lì si svolsero un tempo incontri di persone plurilingui e misteriose che l’autore bambino dovette percepire come figure vicarie di genitori inspiegabilmente lontani: al centro del reticolo la figura sfuggente di una donna dal nome esotico, la padrona di casa rimasta leggendaria per il volto di bellezza inscalfibile e la grande generosità. Colui che dice «io» (il testimone diretto, quindi lo scrittore adulto e paleografo) viene calamitato per due volte in quel luogo la cui piena comprensione gli è interdetta: ci va una prima volta quindici anni dopo averci abitato per il tramite di una ragazza il cui ricordo si lega a una canzone allora in voga, Douce dame (’69) di Serge Latour, e poi ci torna quarant’anni dopo, quando deve ammettere che il luogo è oramai irriconoscibile e dunque è illeggibile il palinsesto che ne serbava traccia. A un certo punto la voce fuori campo del racconto deve ammettere che i fantasmi non temono di mostrarsi alla luce del giorno ma solo per diventare dei personaggi di romanzo, rendersi irriconoscibili e ancora una volta sparire. È come se Modiano confessasse di non poter più catturare i propri ricordi e di esserne, al contrario, catturato fino a non saperli più distinguere e riconoscere. Già si annunciava in opere recenti quali Perché tu non ti perda nel quartiere (’14) e Ricordi dormienti (’17), ma se c’è una novità nell’ultimo Modiano sta nel fatto che l’inchiesta sul passato non viene ostacolata dall’esterno (dalla forza che alla spiccia chiameremmo la Storia) ma è logorata e si dissolve dall’interno.

I ricordi su cui può contare chi scrive al presente sono in realtà ricordi di ricordi che, come tali, tendono via via a depauperarsi e cancellarsi. Sono spettri e nel flusso di memoria tornano più volte con l’immagine del pulviscolo, e insieme, con il relativo contraccolpo di una improvvisa amnesia. Il diagramma cartesiano dello spazio-tempo è comunque dissolto, l’insieme è incoerente e si sbriciola in «una quantità di particolari a prima vista senza alcun legame fra loro e talmente scarni da risultare incomprensibili a un eventuale lettore». Quasi che Modiano sostasse sgomento, atterrito, davanti allo spettacolo della dissoluzione e, pertanto, della vanità della memoria. Così lo stile, senza smarrire beninteso la sua celebrata esattezza, si fa sempre più ellittico e filiforme, talora mostrando una cadenza meccanica dove quella che fu una ricerca diviene una più prevedibile procedura. Che viene resa esplicita: «Il tempo man mano aveva cancellato i vari periodi della sua vita, e nessuno era legato a quello successivo, tanto che la vita era stata un susseguirsi di rotture, valanghe e persino amnesie». Ne rimane al lettore non solo la sensazione di un flusso temporale coattivo ma anche e soprattutto di un eterno ritorno di figure iniziatiche, di spazi, di momenti per sempre figé e condannati, scrisse un poeta esistenzialista, alla perpetua ripetizione del loro esistere. E ciò in un inframondo dove entrano in contatto stati dissimili, realtà tangibile e dimensione onirica: Je rêve souvent de vous… diceva quella vecchia canzone di Serge Latour. Quanto all’ultimo libro di Patrick Modiano, la caduta di tensione (della inquietudine che lo contraddistingue ab origine e che un tempo rendeva spiazzante il suo dettato) può deludere i lettori affezionati e però corrisponde pienamente all’attuale intenzione dell’autore se l’immagine che chiude La strada per Chevreuse è quella di un tracciante nel cielo sopra Parigi, la scia bianca di un aereo che nessuno saprebbe mai dire se arrivi dal passato o ci stia ritornando.

                                                                            

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