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Pasternak, oltranze di ardore e compromessi

Pasternak, oltranze di ardore e compromessiAleksandr Ivanovich Kuprin, «Nudo con tappeto asiatico sullo sfondo», 1918

Poeti russi Precedute dal poemetto «Le onde», ora in versione integrale le liriche di «Seconda nascita», tradotte da Caterina Graziadei per Passigli

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 25 settembre 2022

Nella varietà a tratti vorticosa della produzione di Pasternak, che va dalla sperimentazione futurista al neotolstoismo del Dottor Živago, Passigli pesca ora le liriche di Seconda nascita (pp. 157, € 19,50) affidandone per la prima volta la versione integrale alla squisita interpretazione di Caterina Graziadei. È una raccolta assiale, una sorta di zoccolo duro in cui tutto del passato e del futuro è accolto, riflesso e giustificato. Le ventisette liriche, precedute dal poemetto Le onde, sono state scritte tra il 1930 e il 1932 dal poeta quarantenne che simula senilità ma è invece travolto da violentissima e, appunto, rigeneratrice passione per Zinaida Nejgauz, che mette fine ai matrimoni di entrambi e genera uno stupefacente libro di equilibrismo sui picchi della significazione e del sentimento.

Sei cuori all’unisono
Ciò che sorprende, infatti, è che in un ardente libro d’amore, segnato senza dubbio da oltranza formale, trapeli, nello stesso tempo, una grande ansia di compromesso, con tutti e con tutto. Il compromesso primo verte sul sentimento: attorno al quasi quintessenziale amour fou c’è un reticolo di ambigue attrazioni e tentennamenti che coinvolge la moglie di lui, la fragile e soave pittrice Evgenija Lur’e, il marito di lei, il geniale pianista Genrik Nejgauz, intimo amico di Pasternak, e proietta tutti, assieme anche ai coniugi Asmus (lui filosofo) – «sei cuori all’unisono» – nella lirica seminale Estate, cronaca di una fatidica vacanza in dacia a Irpen’ (quella oggi martoriata!) nella quale la scintilla di Cupido è poco più che un accenno.
In un clima di gaudente levità, si consuma il raffinato convivio «al tempo della peste» platonico-puškiniano, mentre fuori monta l’autocrazia di Stalin. Allo stesso modo l’intera raccolta non è dominata da Zinaida, nonostante la sua travalicante fisicità, eleganza da statua greca, tenerezza non invadente: c’è ampio spazio per la musica dell’amico tradito e soprattutto per la prima moglie, che viene a porsi in sostanziale bilanciamento – spesso nella stessa lirica – con quella che la sostituirà.

Ritorno alla lirica
La «seconda nascita» ha certamente anche un fondamento stilistico e formale, e sta qui il secondo compromesso: in primo luogo è un ritorno alla lirica, dopo i tentativi degli anni Venti, a tratti geniali ma in molto incompresi, di avvicinamento alla forma poetica lunga di tenore epico; lirica, però, accompagnata da un poemetto di 284 versi, espressamente posto in apertura, nonostante descriva l’estate successiva a quella di Irpen’ e un viaggio in Georgia con la sola Zinaida; c’è del resto, nelle Onde, una tensione esclusivamente materica e in nessuna misura narrativa, così da renderlo più simile a un ciclo di liriche che rielaborano sotto diverse angolazioni il motivo titanico delle montagne del Caucaso, equiparate in macrometonimia – ma ancor prima in vertiginoso scorcio visuale – alle onde del mare sottostante, con le quali, attraverso lo scorrere del tempo, è sottesa una millenaria consustanzialità.

Da un punto di vista stilistico, Seconda nascita fa uso largo e sapiente di tutto il campionario di mezzi tropici, paronimici e ritmici che rendono inconfondibile la lirica del giovane Pasternak; in qualche modo, però, i toni sono più pacati, la concentrazione è ridotta, lo sforzo richiesto al fruitore non è esiguo, ma certo minore. Pure tematicamente, dopo l’abbacinante fusione edonistico-estatica con la natura di Mia sorella la vita, si passa al campo lungo di un tratteggiamento scultoreo di singoli nodi concettuali del paesaggio o delle relazioni umane, quasi sempre intesi in chiave diacronica, nella loro evoluzione. Si arriva anche a formulare una poetica di «semplicità inaudita», che sarà in effetti in molto propria del tardo Pasternak, della quale, al momento, è però richiesta una totale dissimulazione.

Di fronte al potere
Potrà sembrare strano, ma questa dissimulazione è del tutto funzionale al terzo compromesso, quello con il potere sovietico. Pasternak è perfettamente consapevole, molto più dei suoi contemporanei, della tragicità della situazione, e capisce bene che «non saremo risparmiati» in caso di discesa allo stesso livello di referenzialità schierata e inequivoca del nascente realismo socialista. Mette in atto invece, in più luoghi della raccolta, un improbabile tentativo di affrontare temi ideologicamente ineccepibili con ambiguità semantica e espressiva; professa con ostentazione, almeno cinque o sei volte, la canonica fede nel futuro, che finisce con l’assumere una sfumatura del tutto personale, quasi apotropaica; accetta con masochismo majakovskiano di sottomettere le sue pulsioni individuali al sovrastante interesse comune. Ogni concessione ai dogmi ufficiali è però soggetta a smottamenti logico-semantici e intertestuali che ne inficiano l’assolutezza, anche la chiusa del libro dove sembra dirsi «felice di annullarmi/ nel volere della rivoluzione» è scandita dalle stesse tre rime con cui si apre la leggendaria lettera di Tat’jana nell’Evgenij Onegin, che già erano state oggetto di ludus citazionale nel testo puškiniano. Pasternak fa insomma tutto il possibile per ritagliarsi il ruolo di più talentuoso e fedele tra i poeti non espressamente comunisti. E lo fa con successo, guadagnandosi un saldo prestigio nelle nuove gerarchie letterarie, che manterrà per un decennio di assoluto silenzio poetico (ormai il compromesso senza onta non sarebbe più stato possibile), esattamente quanto bastava per traghettarsi oltre gli anni più cupi del terrore.

Un degno calco
Più equilibrata, anche dal punto di vista metrico, rispetto alle prestidigitazioni dell’avanguardismo giovanile, la parola poetica del Pasternak maturo appare solida, tornita, corporea, e tale ce la restituisce, con estrema accuratezza e precisione, la traduzione di Caterina Graziadei, alla quale si poneva l’ardua sfida di rivaleggiare con Angelo Maria Ripellino, che aveva tradotto la maggior parte della raccolta nella celebre antologia einaudiana. Pur ribadendo costantemente nel ricco apparato l’ossequio per quello che è stato il suo maestro, Graziadei segue una strada parzialmente diversa, di grande precisione nella resa semantica che non preclude però reinvenzioni, di ricerca non ossessiva di nitidi endecasillabi in un più ampio contesto di libera polimetria, ricostruendo, dove possibile, il fitto tessuto paronimico («la gelatina del cieco meriggio,/ coi gialli occhiali delle conche,/ e miche …»), e scrollandosi di dosso quasi per intero il peso del passato remoto: ne risulta un Pasternak. italiano sobrio e pregno, degno calco dell’originale.

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