Esiste una poesia operaia, un impulso lirico determinato dall’esperienza della fabbrica, o addirittura nato da questa? Non so se sia possibile e opportuno affidarsi a un’etichetta che rischia – come ogni etichetta – di rivelarsi ingannevole. Anche se in un caso come quello di Pasquale Pinto la fabbrica sembra davvero segnare indelebilmente lo spazio della scrittura, come testimonia ora La terra di ferro e altre poesie (1971-1992), Marcos y Marcos (pp. 143, € 20,00), a cura di Stefano Modeo, Prefazione di Simone Giorgino.

Un volume antologico, che restituisce al lettore la parabola di un ventennio in versi, legati a doppio filo a una città – la propria – che in effetti è la sede di uno stabilimento siderurgico importante e insieme tristemente famoso, cioè Taranto (non a caso già al centro di uno dei primi testi: «Io non cammino più / sulle tue pietre greche / Taranto dei Dori / né il tuo odore d’uva a settembre / basta a bruciare / il vento che separa»). Uno dei motivi di fascino della poesia di Pinto – che è nato nel 1940 ed è scomparso nel 2004 – sta, probabilmente, nella naturalezza con cui si fanno convivere la stessa dimensione operaia e, d’altra parte, quelli che potremmo definire invece una serie di a-priori dell’esperienza lirica (di tutta la poesia moderna, senza bisogno di specificazioni o aggettivi ulteriori).

Anzitutto, la presenza dei morti, che si insinua costantemente nelle raccolte qui rappresentate: morti perlopiù inquieti («quando i morti soffiano sui lumini / e scalciano su cancelli notturni (…) / e grandi braccia tremolanti / cullano bare sugli eucaliptus»), così consustanziali ai versi di Pinto che la poesia stessa può essere ribattezzata «terra di morti» (così nel centralissimo testo eponimo, La terra di ferro). Persino il tema mortuario, allora, sarà un modo per posizionarsi «contro», per rappresentare l’estraneità dell’io rispetto alla violenza del proprio tempo, nel quale domina il dolore, mentre «i vivi si nutrono di carne / impacchettata di nylon» (del resto serpeggia, un po’ ovunque, la sensazione che «poetare», come si legge in una delle prime pagine del libro, sia «oggi» un’attività «ai limiti dell’audacia e dell’assurdo»).

A controbilanciare la durezza del presente – una durezza che inquina tutto, dal «piombo dei tramonti» all’«ocra artificiale / che sale dagli altiforni» – resta qualche brandello di natura: la traccia protettiva del materno, la cui ombra si allunga anche sul paesaggio («materne erano / le lune del mio paese / e più dolci / delle radici che ti offrivo / la domenica»). Il tu femminile è per esempio il fulcro delle poesie de La scatola di endovene (1978), il depositario di un rapporto speciale con l’io («Tu sola Marilena / puoi vedere la mia vita»). Eppure chi scrive questi versi non cerca salvezza, non tenta la fuga in «luoghi indenni» e «senza storia»: il suo unico privilegio è invece la consapevolezza, la capacità di vedere l’offesa subita dai propri simili, da certi «uomini che a notte odorano di silicio».