Fin dai loro primi passi nel mondo, i gesuiti sono sempre stati straordinari scrittori di lettere. Già solo quello del fondatore della Compagnia di Gesù Ignazio di Loyola è tra i più ampi carteggi di un secolo, il Cinquecento, che conosce una vera esplosione del genere epistolare. Del resto, perché questa manciata di spagnoli passasse, nel giro di pochissimi anni, dal sospetto al successo, dall’essere considerati una setta di criptoebrei con tendenze al misticismo a diventare il corpo scelto di una Chiesa diffusa ai quattro angoli della terra, una comunicazione epistolare efficace fu uno dei segreti del loro trionfo. Era necessario scrivere lettere convincenti per impiantare con solide radici i due alberi che avrebbero portato i frutti più maturi: le scuole e le missioni.

Queste ultime, in particolare, richiedevano una produzione continua di lettere. Bisognava dare notizia a Roma o in Spagna tanto dei successi nelle conversioni di indios, cinesi e protestanti quanto degli insuccessi, se questi davano vita a modelli esemplari di testimonianza della fede ad maiorem Dei gloriam. Bisognava poi anche scrivere lettere su lettere per chiedere di essere mandati a evangelizzare, spedendo, per così dire, il proprio curriculum vitae allo scopo di fare domanda per incarichi missionari all’estero.

Fino a qualche anno fa l’attenzione era tutta sul primo flusso epistolare, quello delle Lettres édifiantes et curieuses, spedite in Europa dai più lontani luoghi di missione e presto divenute appunto una lettura di edificazione ma anche di evasione. Da una ventina d’anni a questa parte, almeno a partire dal libro del critico letterario Gian Carlo Roscioni, Il desiderio delle Indie. Storie, sogni e fughe di giovani gesuiti italiani (Einaudi 2001), si rileggono con più interesse le lettere degli aspiranti missionari – quelle dunque mandate da chi la missione la chiedeva, più che quelle di chi l’aveva ottenuta. L’insieme di queste lettere, note come indipetae (si pronuncia ‘indìpete’, dal latino Indiam petere, ‘chiedere l’India’), forma un deposito di oltre venticinquemila documenti, scritti da gesuiti europei prima della soppressione dell’Ordine nel 1773, in parte anche durante la soppressione, e dopo la sua restaurazione nel 1814.

Indipetae, lettere per chiedere l’India. Ora, su entrambi i termini bisogna intendersi. Intanto ‘India’ ha voluto dire nei secoli molte cose diverse tra loro: non c’erano solo le Indie orientali e occidentali, perché proprio i gesuiti furono i geniali inventori delle ‘Indie di quaggiù’, tutte quelle zone periferiche o comunque difficilmente raggiungibili del vecchio continente dove Cristo non era arrivato e dove invece i membri della Compagnia di Gesù, se volevano tenere fede al loro nome, erano obbligati a portarne il messaggio. In un mercato come quello missionario, dove la domanda di missione superava spesso le possibilità di soddisfarla, le ‘Indie di quaggiù’ si rivelarono spesso agli occhi dei vertici della Compagnia una destinazione comoda per soddisfare la sete di missione (e di avventura) di giovani novizi talvolta in aspro conflitto con le loro famiglie, senza con questo venir meno al precetto ignaziano di ayudar a las almas. Cinque secoli prima di Carlo Levi, i gesuiti si erano già accorti che Cristo si era fermato a Eboli e che anche sulle montagne della Lucania o nell’entroterra della Corsica, e non solo nelle reducciones del Paraguay o in Giappone, c’era chi viveva ancora immerso nel paganesimo. E da quelle tenebre bisognava tirarlo fuori verso la luce del Cristianesimo – e qui sta la differenza fondamentale con la pietas di Levi, che voleva aiutare i corpi degli abitanti della sua Aliano più che le loro anime.

Se il termine ‘India’ è dunque tutt’altro che scontato, è anche la dimensione della richiesta (del petere) a essere espressa in una grammatica del desiderio totalmente differente da quella che intendiamo noi oggi. Le indipetae infatti non sono la manifestazione spontanea di un ideale, ma la conseguenza di quell’attenta opera di introspezione e di vaglio della solidità della propria vocazione prescritta dal fondatore durante le quattro settimane degli Esercizi spirituali. In questo senso non è andato lontano dal vero chi le ha definite la quinta settimana degli Esercizi, perché quelle lettere servivano proprio a dimostrare come, nonostante il proprio bruciante desiderio di partire, l’aspirante missionario fosse in grado di sottomettersi alle decisioni dei superiori. Ciò non toglie che abbiamo indipetae scritte letteralmente con il sangue (al posto dell’inchiostro) o casi di novizi che, con malcelata frustrazione, chiedono al loro Generale la missione fino a cinquanta volte e invecchiano nell’attesa di una risposta che mai arriverà. Dato questo incrocio tra spiritualità e istituzione, le indipetae sono una fonte ricchissima. Ci permettono, ad esempio, di farci un’idea di cosa passava per la testa e per il cuore di questi aspiranti soldati di Cristo, ma anche di capire la società, le comunità e le famiglie in cui si trovavano a vivere e da cui spesso volevano semplicemente fuggire.

Intorno a questo straordinario deposito documentario, è nato negli ultimi cinque anni un robusto filone di ricerche, che ha avuto tra i suoi risultati più interessanti la creazione di una banca dati (Digital Indipetae Database, liberamente accessibile) dove sono in corso di pubblicazione tutte le indipetae in edizione critica digitale. In un’interessante collaborazione tra digital humanities e ricerca più propriamente storica, le fonti tratte dagli archivi della Compagnia e raccolte nel database hanno dato vita a un’interessante proliferazione di lavori, che hanno studiato queste fonti in modo diverso dalla lettura ravvicinata, e attenta alle retoriche della missione e del martirio, data da Roscioni (che resta comunque insostituibile). Oltre a convegni, seminari e articoli, solo nell’ultimo anno e mezzo sono usciti ben tre libri sulle indipetae, che ne hanno invece proposto una lettura a distanza, sfruttando le potenzialità, date dal digitale, di interrogarle in équipe, in modo quantitativamente massiccio, su un lungo arco cronologico, per lingua, zona di provenienza e di missione richiesta e così via.

Due di questi libri sono raccolte di saggi scritti da vari autori: il primo, l’imponente Cinque secoli di Litterae indipetae Il desiderio delle missioni nella Compagnia di Gesù, è stato pubblicato, seconda la solita capacità della Compagnia di Gesù di veicolare la propria immagine all’esterno, dall’Institutum Historicum Societatis Iesu e curato da tre specialisti della storia dell’Ordine come Guido Mongini, Pierre-Antoine Fabre e Girolamo Imbruglia (pp. XXIII-497, euro 65,00); il secondo, il più agile ma non meno denso La vocazione alla missione nella storia della Compagnia di Gesù, è invece uscito per le cure di Paolo Bianchini e Marco Rochini dai torchi di Morcelliana (pp. 256, euro 22,00).

A entrambi questi volumi ha collaborato Emanuele Colombo, che è anche l’infaticabile animatore del Digital Indipetae Database per il quale ha reclutato – in modo veramente gesuitico – manodopera da ogni parte del mondo.

Colombo è poi autore del libro che raccoglie più sinteticamente i frutti di questa nuova ondata di studi sulle indipetae: Quando Dio chiama I gesuiti e le missioni nelle Indie (1560-1960) (il Mulino «Saggi», pp. 289, euro 28,00). Il libro sfrutta tutta l’enorme distribuzione geografica e soprattutto cronologica di queste lettere: dalla metà del Cinquecento alla metà del Novecento. Una delle ultimissime indipetae è quella scritta dal giovane Jorge Mario Bergoglio, che chiedeva di essere spedito in Giappone ma fu respinto per motivi di salute.

Il tornante, come si vede, è anche qui quello del Vaticano II, quando il profondo mutamento dell’idea di missione legato alla decolonizzazione ha reso le indipetae in un certo senso anacronistiche. Decolonizzazione e poi anche secolarizzazione, come aveva diagnosticato con rammarico il predecessore di Bergoglio: «Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto – e ciò spiega il loro impegno missionario – nella Chiesa cattolica dopo il Concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. (…) Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa?». Si consoli chi rimpiange il passato: se nessun Padre generale leggerà mai più un’indipeta, gli storici continueranno a farlo.