La guerra in Ucraina ha rilanciato la discussione sulla resistenza dei popoli invasi, evidenziando le posizioni delle chiese cristiane. Un tema, quest’ultimo, che il recente libro di Lucia Ceci, La fede armata. Cattolici e violenza politica nel Novecento (il Mulino, pp. 325, euro 26), consente di approfondire. Docente a Tor Vergata, studiosa di storia della Chiesa e del cattolicesimo politico, Ceci si è occupata delle teologie della liberazione e dei rapporti tra Chiesa e Fascismo.

Il volume affronta il nodo della legittimazione della violenza da parte dei cattolici nel corso del XX secolo. Dall’Irlanda del primo 900 alla rivolta dei cristeros messicani, dalla guerra civile spagnola alla repressione ungherese nel 1956 fino alle guerre nel Ruanda o agli attentati antiabortisti negli Usa indaga il modo in cui tradizione e dottrina sono state mobilitate. Che funzione ha assunto la gerarchia ecclesiastica in tutto ciò?
Il libro si muove cercando di sviluppare nel tempo i contenuti della legittimazione religiosa della violenza nel rapporto tra laicato e gerarchia e con uno sguardo sempre puntato sulla Santa Sede. Nel momento in cui la lotta armata viene esercitata contro un’autorità considerata legittima la questione della moralizzazione diventa centrale per smarcarsi dall’accusa di terrorismo e accreditarsi come freedom fighters. Per i combattenti cattolici è quindi fondamentale il sostegno della gerarchia al diritto-dovere di combattere un potere incoerente con i principi fondamentali del bene comune. In alcuni casi il via libera arriva ufficialmente, come nella Spagna degli anni ’30, in altri casi solo ex-post, per esempio con l’enciclica Firmissimam constantiam del 1937, scritta da Pio XI per parlare di Messico, ma con un riferimento implicito all’insurrezione franchista. In altri ancora non arriverà mai. Inoltre, secondo la dottrina sul tirannicidio di matrice tomistica perché una rivolta sia giustificata deve avere una ragionevole speranza di successo. Anche sulla base di questo principio negli anni ’60 appare velleitaria l’azione rivoluzionaria del sacerdote colombiano Camilo Torres, peraltro sospetta per la sua declinazione politica in senso rivoluzionario.

Per essere considerata moralmente accettabile la ribellione deve rispettare il principio dello «Ius in bello», in base al quale i combattenti sono chiamati a impiegare mezzi proporzionati alla gravità della situazione. Un punto caro ai partigiani cattolici italiani che combatterono il nazifascismo. In quel caso determinate aspirazioni si scontrarono con la realtà del conflitto civile e della guerra ai civili.
Esisteva una lunga tradizione pedagogica all’uccidere per la patria. Perché mai allora non doveva essere valida, a maggior ragione, per difendere la fede? In molte testimonianze affiora il motivo della crociata che porta i combattenti ad accogliere la realtà della guerra fratricida con il suo inevitabile di più di violenza. Naturalmente, da combattere senza odio per il nemico… Poi va detto che sono rare le fonti che descrivono la prassi della violenza. Tuttavia dalle ricerche che ho svolto al Sant’Uffizio è venuto alla luce come, sul piano dottrinale, negli anni 1943-1945 non si formula alcuna condanna dei cattolici per l’adesione alla guerra resistenziale. Viene viceversa scomunicato il sacerdote della Rsi don Tullio Calcagno che teorizzava il dovere di odiare il nemico.

Dal libro emerge una parziale discontinuità dopo il Concilio Vaticano II (1962-1965). La Santa Sede prese le distanze dall’utilizzo politico della religione per giustificare le violenze. Non si può dire lo stesso per i laici coinvolti nelle lotte rivoluzionarie.
Nel caso irlandese, fin dall’inizio del secolo, conta molto la volontà da parte della Santa Sede di non inimicarsi il governo britannico. Ma anche al culmine della repressione con il Bloody Sunday di Derry (1972) sono gli stessi combattenti dell’Ira che rifiutano l’idea della guerra di religione. Invece, è vero che per i teologi della rivoluzione in America Latina la lotta armata costituisce sia un atto necessario di carità cristiana per gli oppressi sia una necessità politica motivata con le categorie del marxismo, cioè contro la violenza strutturale del capitale e dell’imperialismo statunitense. In occasione della conferenza di Medellín (1968) alcune di queste categorie vengono assorbite anche dalla Conferenza episcopale continentale.

Un capitolo torna sulla discussione, sviluppata già da Giorgio Bocca negli anni ’70, sulla presenza nelle Brigate Rosse di militanti di estrazione cattolica.
Non c’è dubbio che figure come Renato Curcio, Margherita Cagol, Roberto Ognibene avessero avuto una formazione cattolica e nelle associazioni confessionali, come del resto era molto comune per la generazione dell’epoca. Tuttavia, tra le fonti del partito armato non si trovano certo riferimenti alle categorie del cristianesimo rivoluzionario ampiamente circolanti all’epoca. A mio avviso, questo indica una chiara cesura. Viceversa dovremmo mettere sul conto della Chiesa cattolica tutte le culture e i movimenti politici che si sono sviluppati nella penisola.