Rivendicò di essere un poeta, un grido unanime, chi combatteva a mani nude e nel fango della trincea, un secolo fa: questo è forse il solo modo anche oggi di dire un «io» che valga un «noi» senza adulterarlo nella retorica né depauperarne il significato. Infatti viene in mente carico di una forza tuttora inesplosa l’antico verso di Ungaretti aprendo, qui-e-ora, La terra più amata. Voci della letteratura palestinese (manifestolibri, collana «Contemporanea», pp. 262, euro 20), storica antologia alla terza edizione, dopo quelle del 1988 e del 2002, che torna integrata e rinnovata a cura di Wasim Dahmash, Tommaso Di Francesco e Pino Blasone cui si aggiunge, in copertina, Mauro Biani con una immagine perfettamente en situation, di nitida pregnanza.

DIVISO IN DUE PARTI fra poesia e prosa, il volume raccoglie oltre una trentina di voci, non meno di tre generazioni di scrittori palestinesi, disponendole in retrospettiva ma rispettando la scansione temporale dei momenti topici di un popolo per proverbio senza terra in quanto essa gli fu ab origine negata, dalla Nakba del ’48 fino alle tre insorgenze della Intifada (1987, 2000, 2015) e gli attuali massacri di Gaza, cioè la sola risposta di cui si mostra capace, dopo il micidiale pogrom perpetrato da Hamas il 7 ottobre, la destra suprematista e fascistoide che governa Israele e mantiene da decenni la nazione palestinese in stato di cattività, quando «è messa a repentaglio la stessa esistenza di un intero popolo», scrive nella sua appassionata introduzione Tommaso Di Francesco.

«La notte di Gaza è buia/ a parte il bagliore dei razzi»: con questi versi essenziali, quasi degli appunti stesi velocemente sul foglio, si apre l’antologia e sono il testamento di Hiba Abu Nada, trentadue anni, morta sotto un bombardamento a Khan Yunis, lo scorso 23 ottobre, mentre idealmente le risponde Jumania Mustafa, che scrive: «La morte al femminile/ atterra sui tetti/ depone le sue uova/ e le lascia poi schiudersi». Queste sono naturalmente uova esplosive, bombe.
In Palestina, quanto alla poesia, lo spazio della metafora si restringe, quasi si azzera, e ciò che in Occidente venne definita la dittatura del significante (con l’oblìo o l’assorbimento progressivo dei significati) qui è persino inconcepibile.

LA POESIA RITROVA, viceversa, la sua funzione primordiale di parola complessa e sommamente significativa, che viene detta solo per essere affidata a qualcuno e spartita nei termini di una laica eucarestia. Qui il termine di «postmoderno» o simili suona offensivo alludendo a qualcosa di ludico, di gratuito, o di sinistramente fatuo e, semmai, vi persiste la lezione di maestri del modernismo radicale: l’engagement, al di là del significato strettamente politico, ritrova proprio in Palestina un fondamento esistenziale, una mozione etica, e poeti quali Garcìa Lorca, Nazim Hikmet, Louis Aragon, ritenuti altrove anacronistici, qui sopraggiungono dal passato remoto per ritrovarsi, intatti, nel futuro anteriore di un patimento che non sembra avere fine. Nella letteratura dei palestinesi vibra un afflato, un riaffermarsi estremo della dignità, uno spasimo di resistenza che accomuna testi in sé differenti, li riconosce fraterni senza affatto renderli uniformi e, al riguardo, basterebbe un’apertura di Suaad Genem («Quando la ferita ha cominciato a bruciarmi/ ho visto apparire il mio paese./ Ho visto lei salutarmi sventolando il fazzoletto») o un’espressione frontale di Hanan Awaad («Sono figlia delle armi/ per te combatto l’uragano/ sono figlia di verdi ferite») o infine le parole di Mosab Abu Toh, diluite in dolorosa perplessità: «Di notte il tempo striscia/ quando l’attesa si allunga» (e va aggiunto che, per il repertorio, l’opera di riferimento rimane sempre In un mondo senza cielo. Antologia della poesia palestinese (Giunti 2007), a cura di una grande specialista come Francesca M. Corrao). Centrale e aggettante resta tuttavia la figura di Mahmud Darwish (1941-2008), uno dei maggiori poeti del nostro tempo, noto in Italia fin dall’uscita di una sua raccolta centrale, Perché hai lasciato il cavallo alla sua solitudine? (San Marco dei Giustiniani 2001).

DARWISH È UN POETA che inscrive nell’epica la sua stessa vocazione lirica e alla tradizionale monodìa preferisce l’espressione per blocchi allegorici, mentre la sua testualità traduce in alta meditazione i temi della persecuzione e dell’esilio. Anzi, l’esempio di Darwish agisce da catarifrangente nei riguardi di autori più giovani che siano alla ricerca non già di un semplice «noi», indistinto e fusionale, ma piuttosto di un «io/tu» che accetti la sfida dell’altro (l’avversario, il nemico, l’ebreo) e metta in mora le parole d’ordine dell’integralismo omicida di Hamas, che oggi ha in ostaggio il popolo palestinese, così come ogni metafisica identitaria. In questo Darwish richiama l’antefatto del maggiore fra i prosatori palestinesi, quel Ghassan Kanafani che morì vittima con sua nipote sedicenne di un attentato a Beirut nel ’72, l’autore di un racconto sublime, Ritorno ad Haifa (Edizioni Lavoro 1991), che peraltro anticipa, qui opportunamente antologizzato, la prosa del poeta Refaat Alareer (1979-2023) morto anche lui sotto i bombardamenti a nord di Gaza: ed è proprio nel saggio intitolato Non esistono poesie di distruzione di massa (2015) che Alareer decostruisce annosi stereotipi antisemiti (a proposito di Shylock nello skakespeariano Mercante di Venezia e di Fagin nell’Oliver Twist) per intercettare la stessa dinamica in quelli che attualmente offendono i palestinesi e gli arabi tout court. Altri nomi si accampano nella sezione antologica dei prosatori e vanno almeno rammentati Salman Natur, (traduttore in arabo di David Grossman), Jamal Bannura (il cui Intifada venne pubblicato in italiano grazie a Edoardo Sanguineti) e Raymonda Hawa Tawil la cui toccante autobiografia (disponibile in francese, Mon pais ma prison, Seuil 1979) meriterebbe di essere tradotta.

PERCHÉ È LÌ che continuano a chiedere una verità e ad esigere giustizia, come scriveva Kanafani più di cinquant’anni fa in Lettera da Gaza, «tutti quei ragazzi che si sono nutriti della sconfitta e dell’esilio, quelli che sono arrivati al punto di credere che la felicità sia una stranezza». In Occidente molti oggi ripetono che quella felicità è impossibile e infatti è detto da qualche parte, nelle Scritture, che quando uno dice che una cosa è impossibile di solito non la vuole.