Quando l’altra sera Mélenchon ha detto: il paese è stato salvato dai quartieri di periferia, mi è tornata in mente la frase di un mio amico della zona Nord di Napoli che diceva che le periferie sono «peggio» della provincia, perché la provincia conta su una sua autonomia, può essere variamente amministrata. Invece le periferie delle grandi città soffrono la distanza dal centro del potere, sono come un braccio malato in un corpo in cui- se tutto va bene – il cuore è sano. E quasi mai va tutto bene. Eppure è questo braccio malato che salva la democrazia francese.

Nello stesso giorno ho fatto un viaggio cittadino, quaranta minuti di linea metro 2 senza cambi dalla periferia in cui vivo io, Bagnoli, a quella opposta, san Giovanni a Teduccio. Sono i due estremi che chiudono la città metropolitana di Napoli lungo la linea del mare (poi, nell’interno, disegna come punte di diamante verso Scampia, Secondigliano, Miano, Pianura, Soccavo).

Tutte periferie ciascuna grande come una città, in cui i servizi sono accorpati, prima c’erano due consultori ora uno, un solo pronto soccorso per un bacino di ottantamila utenti, poche biblioteche. Quando i turisti arrivano, e ne arrivano tanti, e vanno via, raramente hanno visto Napoli. Credo che moltissime persone anche di Napoli non abbiano mai visto Napoli, spero che gli amministratori la conoscano davvero Napoli, che ne abbiano perimetrato i confini.

Perché se, come dice Mélenchon, la periferia ha salvato la Francia, è perché la sinistra parigina nelle periferie ci è arrivata.

Vi è, qui, nelle periferie di Napoli, un “fare” pieno di istanze di sinistra che resta nelle memorie degli operai dei poli dismessi, tra le case dei ferrovieri, una resistenza che ho veduto con i miei occhi, che si può vedere se ti muovi e ci vai.

Ci sono certi luoghi a cui non viene dato nulla e, quello che c’è, viene lasciato degradare, eppure riescono a essere vivi – nel deserto – più vivi del centro: e quella vitalità è nell’azione. Sono luoghi in cui la camorra non entra, e manco la carità cattolica, che ci entrerebbe pure – e dove arriva fa bene -, ma davvero: attraversare un cortile e trovarci dentro una bandiera della pace lgbt arcobaleno, stesa su tutta una facciata, per un paese laico è un segno più forte che trovarci un crocefisso.

Annamaria Ortese scrisse La città involontaria nel 1953 ma, quando abbandoni la metro e cammini per duecento metri nello sterrato, ti infili in certe costruzioni deliranti, vicoli con le facciate senza intonaco, cosa è cambiato? Vive così la periferia che deve salvare il paese dalla destra, vive di continue assenze eppure, lì dove resiste, splende di limpidissima dignità.

Questo più di tutto: un cortile quadrato che appartiene a un centro diurno (una Fondazione autonoma -nata su un orfanotrofio dell’800 “Famiglia di Maria”) che era diverso da tutto quello che è oggi il racconto su Napoli.

Qui quello che vedi delle donne non sono le unghie lunghe o le sopracciglia tatuate, ma che sono tornate a scuola, una sta per prendere la licenza di terza media, un’altra si è iscritta finalmente all’università. Qui le bambine non sono sessualizzate, ma sbrigliate oppure timide, i maschi mai violenti piuttosto il contrario: composti.

Si è parlato per due ore di poesia, non di calcio, di poesia. Era l’esito di un percorso di scrittura del centro diurno, l’editore storico Colonnese ha offerto una pubblicazione, i poeti che hanno condotto il laboratorio seduti al centro, come è giusto, e i bambini piccolissimi, ma proprio piccoli che il leggio abbassato al massimo era più alto di loro, hanno letto le poesie a una giuria tutta di donne.
(C’era una bambina con un vestitino verde senza un bottone e con un talento vero).

Il desiderio di emancipazione attraverso la cultura, la comunità che si stringe intorno ai poeti, una bandiera arcobaleno come sfondo, il fare, la dignità.

Cosa altro dovrebbe salvare il paese? cosa altro c’è più di sinistra di così?