Robert Badinter, avvocato e politico francese, è morto il 9 febbraio 2024 all’età di 95 anni.

E’ passato alla storia soprattutto come il ministro della Giustizia del governo socialista nominato da Mitterrand che ha abrogato la pena di morte per ghigliottina il 9 ottobre 1981.

L’intervista che ripubblichiamo dopo la sua morte è stata realizzata da Rossana Rossanda a Parigi il 10 maggio 1982, pubblicata sul manifesto del 27 maggio 1982.

E’ poi stata raccolta nel volume straordinario con le interviste storiche dei primi dieci anni del giornale. Il volume si può acquistare sullo store del manifesto al costo di 12 euro spedizione inclusa.

27 maggio 1982, Parigi

Se Jacques Delors, già sindacalista e di estrazione piccolo – borghese, è la bestia nera della sinistra, Robert Badinter, grande avvocato e grossa famiglia, è la bestia nera della destra.

Ieri, Lecanuet, giscardiano e già ministro della giustizia dal 1974 al 1976, lo ha accusato nientemeno che di aver «allargato la sua clientela per grazia presidenziale». Due settimane fa l’ex ministro degli interni, Christian Bonnet, giscardiano, gli ha sferrato un attacco come a nessun altro: reo di aver rimesso in libertà cinquemila detenuti per reati minori, chi era Badinter se non «l’espressione d’una certa marcescenza della Parigi evoluta», e perdipiù uno che sta al governo senza mandato popolare, senza essere deputato eletto, «cosa successa quasi mai prima d’ora»?

Nel quasi, non solo stava un errore storico (già De Gaulle aveva affidato questo ministero a Teitgen o Chenot) c’era una perfida allusione al governo petainista di Vichy, che ovviamente formava i ministeri senza elezioni.

E non basta: Badinter, continuava Bonnet, è uno che si comporta «piuttosto come un obiettore di coscienza che come un soldato» nella, in Francia ancora modesta, lotta al terrorismo.

Un uomo, insomma, il cui vero mestiere non è difendere lo stato ma, come tutti gli avvocati, coloro che lo stato arresta o condanna. Garantista, per finire. Che si può avere di peggio al Ministero di grazia e giustizia?

E del resto, pochi giorni prima ancora, Gaston Defferre, uomo di ferro del Partito socialista (mentre Robert Badinter non ha tessere in tasca) e attuale ministro degli interni non aveva annunziato misure di restringimento delle libertà e di controlli di polizia radicalmente opposte ai principi del suo collega guardasigilli? L’opposizione ha pensato di giocare sul velluto, puntando su una frattura della compagine di governo e sulla demolizione di quello che era stato, nell’opinione, il nemico principale del progetto di Alain Peyrefitte che va sotto il nome, alquanto improprio di Securité et liberté.

Credeva, almeno, di giocare sul velluto. Perché è un osso duro da rodere questo «borghese» – come ama definirsi, ricevendomi al ministero, delizioso segmento della deliziosa place Vendome, incastonato fra il Ritz e Cartier, aperto sul retro verso un giardino perfetto, incongruamente lontano dall’orrore del carcere, dai tormenti del giudizio, dal dilemma della pena.

E’ un avvocato della borghesia illuminata, forse il più grande, certo il più fermo nello scontro politico, assai poco simile a un uomo di partito e per niente a un burocrate, con la sua allure da professionista che cura la forma e le repliche taglienti che gli vengono dalla pratica del foro.

E, perdipiù, un uomo che non nasconde una sorta di gioia interna, perché lui, Robert Badinter, la battaglia della sua vita l’ha vinta.

Anche cadesse, questo governo di ferro, l’avrebbe vinta lo stesso, una volta per sempre: l’abolizione della pena di morte.

«Questo almeno è irreversibile – mi dice – almeno per quanto lo sono le cose sulla scena del mondo: dovrebbe esserci un’ondata fascista in tutta Europa perché fosse restaurata anche qui».

Una conquista sicura e storica. Perché storica? Gli domando, in fondo in Italia, Spagna, Germania, paesi con più fragile tradizione democratica, l’abolizione è andata da sé. E’ già tanto se qualche fascista rispolvera, con poca persuasione e di fronte a provocazioni non da poco come quelle che insanguinano le nostre strade, il ritorno alla pena capitale.

«Appunto perché avete conosciuto il fascismo – osserva Badinter. – Esso vi ha mostrato quanto sia esorbitante il potere dello stato davanti all’individuo. Nella pena di morte questo potere supera ogni limite».

Il fascismo come stato che non è più convenzione, contratto di legittimità, e si erge a giudice supremo e incontrollato al di sopra degli uomini. Sarà questa percezione che ha aiutato noi, democratici tardivi, a vincere quel bisogno di vendetta (risvolto dell’angoscia) che i francesi portano dentro di sé?

Di tutti i ministri del governo socialista, Badinter, non socialista, è quello che riceve più lettere anonime, minacce e insulti.

«Non è in sede politica che è stato difficile abrogare la penadi morte. Anzitutto Mitterrand aveva dichiarato durante la sua campagna presidenziale che questo era per lui un principio irrinunciabile, dovesse costargli l’elezione: e invece gli ha giovato, confermando l’immagine di un uomo non disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di ottenere il consenso. Ma questa cambiale con l’elettorato dovevamo riscuoterla subito, senza troppe discussioni. E così abbiamo fatto».

Gli ridono gli occhi, al ministro; l’ha vista più volte la sua nemica, la ghigliottina, e: «Era già pronta a rimettersi in moto, stava ferma dal settembre del 1977. Già avevano un pacchetto di condannati da giustiziare dopo la vittoria, se avessero vinto gli altri».

E aggiunge: «Se è stata ferma cinque anni, quasi, è anche perché per cinque volte in questo periodo ho strappato alla pena capitale un imputato. L’ultima volta, a Tolosa, la polizia ha dovuto proteggermi dalla folla che urlava per strada. Un amico mi disse: Non ce la farai più a spuntarla di nuovo».

Non ce l’avrebbe fatta, forse, se Mitterrand non avesse vinto. Eppure, appena vinto, le Camere non hanno osato votare se non praticamente all’unanimità l’abrogazione. E perfino il Senato, sola istanza dove i socialisti non sono maggioritari e che funge da sacca di resistenza, stavolta ha passato senza emendare.

«Se Giscard avesse giocato questa carta, alla Camera gli sarebbe andata bene, naturalmente, e oggi avrebbe almeno potuto attribuire la sua caduta – aggiunge Badinter, malizioso – a una nobile causa».

Nobile e impopolare. Non sono felici, mi si dice, tutti i responsabili federali socialisti quando arriva in provincia questo ministro importante, e qualcuno gli sussurra: sull’abolizione della pena di morte non insistere troppo. Da dove viene, domando, questo bisogno «popolare» di mandare a morte?

«Non dimentichi che in Francia la ghigliottina è legata alla rivoluzione dell’89. Da noi la libertà è nata anche da quelle esecuzioni».

Una vendetta di massa, feroce, liberatoria. Da allora lo strumento del dottor Guillotin s’è trascinato questo ambiguo segno, anche quando di ambiguo non gli restava più nulla, strumento spettacolare e intollerabile di repressione ultima.

Ma non c’è solo la tradizione; c’è qualcosa di più oscuro e recente, il senso dell’insicurezza alimentato dalla vecchia classe dirigente, qui come in Italia, il potere che cerca di rinsaldare la sua delega agitando l’inquietudine che cova nell’animo di ciascuno di noi. Badinter conosce i suoi antropologi e analisti.

«Forse quando uno si dice: lasciamo la vita a chi ha ucciso, è come se garantisse l’eventuale assassino che porta dentro di sé. Di questo ha paura».

Più di sé, dunque, che dell’improbabile coltellata d’uno sconosciuto nella notte. Ma qui ci inoltriamo in acque torbide e profonde: quest’uomo allegro ed elegante deve avere bene scrutato i volti di chi lo vituperava per essere stato privato del sangue d’un colpevole, deve aver bene percepito l’angoscia dietro alle parole e alle strida, colto le radici inconfessate della vendetta.

Come per i cinquemila detenuti rimessi in libertà sui circa 41.000 reclusi. E’ parso cadere il mondo: cinquemila «criminali» lasciati scorrazzare in giro.

«Vede, qui è radicata nel profondo l’idea assurda che giustizia sia eguale a pena, e pena a prigione. Ricorda quel che scrive Levi Strauss? Il nemico o lo mangi o lo rigetti. La prigione è il rigetto di colui che la società non sa recuperare. Non si tratta soltanto di privarlo della sua libertà; ma esser certi che non fa più parte del nostro mondo. Ne è fuori. Eliminato».

Esiliato. E tuttavia, quando lo interrogo, Badinter non crede che si possa fare a meno d’una giustizia non solo retributiva ma anche punitiva. «Anche punitiva? Lei conosce qualcuno che in carcere ha migliorato?», gli domando.

«Più d’uno. Qualcuno che si è sentito liberare in questo modo da un debito che sentiva di dover pagare».

Io non ne conosco nessuno, sarà che il carcere italiano è peggio di quello francese? Non si può immaginare una società che si dia le sue norme ma riesca a risolvere la loro violazione, la devianza, senza «sorvegliare e punire»? Qui l’uomo di diritto e appassionato delle idee è temperato dal politico: forse un giorno, mi dice, su questo potrà scrivere un libro che ha in testa. Intanto no, non lo crede.

Amico di Foucault, gli ha bruciato che il giorno dell’abolizione della pena di morte «non dico dovesse mettersi a cantare Allons enfants de la patrie, ma ha scritto su Libération che era una vittoria da niente, che la ghigliottina era da tempo in disuso, che bisognava occuparsi di cose più serie come le prigioni».

Badinter, che ora va forte con la riforma penitenziaria, sa che il passaggio della ghigliottina fra i pezzi da museo non è stato cosa da nulla: forse Foucault una folla urlante contro di sé non l’ha sentita mai, come lui al momento della strappata condanna «solamente a vita».

Né si sente alle spalle il fiato grosso dei sorveglianti delle carceri che, nelle stesse ore, stanno assediando il ministro – proprio mentre si svolge questa conversazione davanti a un the e sta cadendo sul giardino la sera di prima estate. Che succederà in Francia se, come da noi, i detenuti saliranno sul tetto delle carceri?

Ma Badinter il giusto sa che anche i guardiani sono uomini, abitanti di «quella terra di nessuno che sta nell’essere nel carcere senza essere carcerati; non appartenere né a un mondo né a un altro, detestati da tutti e due». Tutto è difficile.

Robert Badinte rnel suo studio a Parigi, nel marzo 1976
Robert Badinter nel suo studio a Parigi, nel marzo 1976, foto Francois Lochon /Gamma-Rapho via Getty Images

Intanto però una cosa sa: quel che deve essere demolito nella Francia del 1982. «Le nostre Bastiglie». E le elenca: la corte di sicurezza dello stato. La famosa legge del dopo 1968, la anticasseurs, che introduce il principio della responsabilità collettiva (ahi, Calogero). I tribunali militari. La legge Peyrefitte su Sécurité et liberté. Abolirla o emendarla? «Abolirla. Ricondurre alla situazione di prima salvo un punto, concernente la flagranza, che era cattivo anche prima».

Insomma: «Se c’è un asse nel mio pensiero è che la giustizia è stata sentita dal cittadino come uno strumento unilaterale a servizio dello stato. D’altronde è nata così, era la giustizia del re, e in Inghilterra l’introduzione dell’habeas corpus è la prima forma di difesa dei nobili dal re. Poi il principio si allarga con l’allargarsi della democrazia. Quel che dobbiamo fare è capovolgere questa situazione: fare della giustizia uno strumento che il cittadino sente suo come protezione dall’onnipotenza del potere».

E qui veniamo al punto dolente, il terrorismo, evacuato dalla discussione in Francia. Dove, sia detto fra parentesi, c’è una sola parola corrente per indicare stato e potere, governo e potere.

Badinter si stringe nelle spalle. Qui il terrorismo non l’abbiamo. Ma se l’aveste?

«Vedremo. Vedrà il governo. Inutile che io parli in via personale».

Questo si chiama essere garantisti, è un rapporto di lealtà. E d’altronde quel che so di Badinter, quando non era ministro, mi fa pensare che sarebbe difficile piegarlo alla necessità di leggi speciali; che per una testa come la sua, la vera vittoria del terrorismo sarebbe governare in modo da somigliargli.

E tuttavia, riflettendo a quel che viene dicendo, mi chiedo quanto ci sia di immobile, di puramente riparatore, nella definizione di «garantismo»: Badinter non è un semplice riparatore di diritti lesi dalla curva autoritaria che anche in Francia, prima di Mitterrand, lo stato aveva subito o voluto. Badinter vuole di più.

«C’è un patto segreto – dice – che la sinistra deve fare, soprattutto con i giovani. Dare loro la certezza che non solo garantirà le libertà, ma le allargherà. E’ una mia convinzione – si ferma un attimo, sorridendo – ecco, non rida di questa parola, una mia convinzione ‘patriottica’, che la Francia ritroverà una dimensione più grande se diventerà lo stato che più di altri difende le libertà».

E’ questo che lo ha indotto a estendere il diritto d’asilo avaramente praticato dai suoi predecessori, a chiudere con le estradizioni. «In Spagna ve lo rimproverano. Dicono che siete il santuario dell’Eta».

Mi guarda come se lo sentisse per la prima volta. «Impossibile. Noi vogliamo essere terra d’asilo. Ma è bene che nessuno si faccia delle illusioni. Non siamo terra di santuario. Non saremo il punto d’appoggio per azioni da concertare qui ed effettuare altrove. Chi lo credesse se ne accorgerebbe pesantemente».

Storia /Robert Badinter

Avvocato, è ministro guardasigilli del governo Mauroy, eletto dopo le elezioni di Mitterrand a presidente nel giugno 1981. Dal suo incarico di ministro della giustizia, Badinter – che non è membro del Partito socialista – ha portato avanti una battaglia garantista coerente, ha mantenuto la promessa mitterrandiana di abolire la pena di morte e il complesso di leggi del suo predecessore Alain Peyrefitte che va sotto il nome di «Securite et liberté» e le leggi «anticasseurs» seguite al maggio 1968. Protegge il diritto d’asilo e persegue la riforma penitenziaria. L’intervista è stata raccolta il 10 maggio 1982.