Paolo Canevari è uno degli artisti della sua generazione famosi a livello internazionale, noto per l’utilizzo di differenti materiali e media, quali animazione, disegno, video, scultura, performance e installazioni. L’artista propone simboli o luoghi comuni facilmente riconoscibili, per evocare concetti quali la religione, i miti urbani della felicità o i grandi principi alla base della creazione e della distruzione.

Dal 2011 inizia con la serie di opere Monumenti della Memoria, una ricerca basata sui linguaggi tradizionali della pittura, del disegno e della scultura. Attraverso declinazioni tecnico-linguistiche indaga aspetti personali, intimi e interiori, in rapporto all’opera d’arte e al suo significato universale. Pur afferendo alla riconoscibilità di forme e dimensioni di un patrimonio artistico e culturale condiviso, pone l’accento sull’assenza, sul potere dell’immaginazione individuale, sul concetto di identità, sconnessa dal dilagante bisogno di un riconoscimento sociale, e infine sulla necessità di costruire una propria iconografia, non condizionata dai continui stimoli visivi del sistema dei consumi.

Pensi che l’arte possa avere un valore sociale?

God year, 2003, foto Marco Delogu

Parafrasando Moravia: il ruolo dell’artista nella società è di essere antisociale, dunque di mettere in discussione lo status quo, il conformismo di massa e il sistema politico a servizio dell’economia consumistica. L’arte ci risveglia dalla passività mentale: il suo valore sociale consiste nell’essere un’entità in grado di generare pensiero. L’opera è un qualcosa che pone quesiti ed evoca enigmi, dubbi sulla sua vera natura e sul suo senso. È uno stimolo mentale che tesse strutture di significato. Per questo l’opera d’arte è dissonante rispetto alla nostra quotidianità, finalizzata al perseguimento di obiettivi pratici e strutturata da oggetti di cui conosciamo già la funzione e lo scopo.

Unico elemento al di fuori di questo contesto abituale di agire e di pensare è l’opera d’arte. Per questo essa ci appare estranea. L’arte ha un valore sociale solo ed esclusivamente come entità che crea valori, non come uno strumento finalizzato a un obiettivo pratico.

Come lavori? Qual è la tua quotidianità?

Nobody Knows, 2010, performance Centro Pecci Prato, foto Marco Anelli

In maniera estremamente semplice: aspetto l’idea, che può arrivare nei momenti più disparati e anomali. Per questo, non passo il mio tempo in uno spazio specifico, nello studio ad esempio. È una pratica che reputo dannosa, una forzatura al pensiero. Le idee e le intuizioni, infatti, si sedimentano nel quotidiano fino a trovare (da sé) una loro forma. Spesso realizzo l’opera in poco tempo, usando tecniche basilari, perché credo ad una semplicità esecutiva che sottolinei il gesto poetico e che sia democraticamente comprensibile come percorso. Detesto la spettacolarità e la ricerca di effetti, oggi molto in voga anche nell’arte. Nel mio lavoro cerco di attingere a una dimensione umana dell’opera, intima-personale-semplice-fisicamente e spiritualmente accessibile, non alla monumentalità, che rivela piuttosto un bisogno di affermazione impositivo, strettamente connesso all’idea e all’esercizio del potere.

Scegli un luogo. Come lo trasformeresti?

Bouncing Skull, 1- 2007, fermo immagine da video

I luoghi e i contesti possono entrare in maniera determinante nell’interpretazione di installazioni, performances o riprese realizzate in luoghi significativi. Penso ad esempio al mio video Bouncing Skull (2006), girato a Belgrado nell’ex quartier generale di Milosevic, bombardato dalla Nato nel 1999. Quando scelgo un luogo, cerco di rispettarne la storia, la natura, e cerco di raccontarla in rapporto con l’opera per farla diventare parte integrante di essa. È molto diverso scegliere come luogo di un’opera una chiesa, una foresta o un museo: il significato dell’azione artistica si realizza anche in relazione con il contesto.

Con la scultura, però, le cose sono diverse. Una scultura, in senso strettamente classico, non necessita di spazi o supporti: una scultura, semplicemente, è.

Anche in un magazzino, il David di Michelangelo conserverebbe sempre la propria potenza espressiva. È qualcosa che gli appartiene e che lo rende autosufficiente, anche rispetto a un eventuale pubblico. Per questo, in fondo, non credo che siano le opere d’arte ad avere bisogno della nostra presenza, ma noi ad avere bisogno della loro.

“Nel periodo tra il 2009 e il 2010 ho iniziato a prendere coscienza che la mia ricerca era arrivata ad un limite, imposto dal metodo e dal cambiamento di una struttura linguistica. Il sistema globalizzato d’informazione, attraverso il web e i social networks, aveva assorbito e fatto proprie le strutture linguistiche che appartenevano all’arte contemporanea e agli artisti; il sistema ci aveva raggiunto, aveva compreso il nostro linguaggio assorbendolo, sfruttandolo ai propri fini. Il significato politico e il potere dell’immagine erano stati così ridimensionati; non erano più un’eccezione nel panorama del linguaggio contemporaneo, ma semplicemente la norma. Iniziai dunque a ripensare il ruolo dell’immagine attraverso lo strumento della memoria, riflettendo su ciò che non si poteva riprodurre perché non aveva immagine. Ad interessarmi era la possibilità espressiva che nasce quando il concetto e il contenuto dell’opera sono legati unicamente alla forma e al suo potere evocativo. Significava non cercare più il contenuto nell’immagine ma nella sua assenza”.

 

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