Ha impiegato meno di cinque giorni, compreso il weekend, il procuratore capo di Bologna Giuseppe Amato, a formulare la richiesta di archiviazione del fascicolo aperto per l’aiuto fornito a Paola R., una signora bolognese di 89 anni malata irreversibile di Parkinson che l’8 febbraio è morta suicida in una clinica svizzera. Ad autodenunciarsi, il giorno dopo, presso la stazione dei carabinieri di via Vascelli, sono stati tre attivisti dell’associazione Soccorso civile: Marco Cappato, Virginia Fiume e Felicetta Maltese. Una richiesta di archiviazione che è una nuova pietra miliare sulla via del suicidio assistito legale in Italia.

È INFATTI LA PRIMA VOLTA che accade da quando l’associazione Luca Coscioni (e la neonata Soccorso civile, che ha già raccolto 17 volontari pronti alla disobbedienza civile) ha iniziato ad aiutare gli aspiranti suicidi che non rientrano nella casistica contemplata dalla Corte costituzionale nella sentenza 242/2019, Cappato/Dj Fabo, non essendo dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, e che dunque non possono ottenere in Italia il suicidio medicalmente assistito. Nulla infatti si è mosso per i casi precedenti: a Milano sono ancora in stand by i fascicoli aperti per l’aiuto a raggiungere la Svizzera fornito da Cappato a Elena e Romano, mentre a Firenze sotto inchiesta per il suicidio di Massimiliano c’è anche Felicetta Maltese.

I TRE ATTIVISTI – Virginia Fiume e Maltese che hanno accompagnato la signora Paola nel suo ultimo viaggio, e Marco Cappato come responsabile legale dell’associazione che ha fornito sostegno economico e procedurale – rischiano da 5 a 12 anni di carcere. «Ci siamo assunti un rischio molto grande – commenta Cappato in una conferenza stampa tenuta ieri online – Non sappiamo se il Gip accoglierà la richiesta della procura ma il fatto di per sé è già molto importante, perché il pm Amato ha accolto pienamente un punto che è alla base della nostra disobbedienza civile: la discriminazione nei confronti di quei pazienti che sono costretti ad andare all’estero in quanto ancora non dipendono da trattamenti di sostegno vitale pur avendo scelto liberamente di porre fine alle sofferenze provocate da malattie terminali come il cancro, il Parkinson e così via».

SPIEGA L’AVVOCATA Filomena Gallo, coordinatrice del pool di avvocati di Soccorso civile e segretaria nazionale dell’associazione Coscioni, che «il procuratore Amato fa una disamina attenta della decisione 242/2019 della Consulta e riporta anche le sentenze di assoluzione di Cappato e Mina Welby per il suicidio di Davide Trentini emesse dalla Corte d’Assise di Massa nel 2020 e dalla Corte d’Appello di Genova nel 2021». Nel caso di Trentini, i giudici infatti, ricorda Gallo, «allargarono il concetto di trattamento di sostegno vitale a situazioni ulteriori rispetto al collegamento della persona con un macchinario, includendo anche i farmaci e l’assistenza fornita al malato non autosufficiente».

Dunque la procura di Bologna, che aveva iscritto i tre volontari nel registro degli indagati per istigazione e assistenza al suicidio, assume che la nozione di trattamento di sostegno vitale debba essere intesa «come comprensiva anche di quei trattamenti di tipo farmacologico, interrotti i quali si verificherebbe la morte del malato anche se in maniera non rapida». E così, continua Gallo, «traendo un’interpretazione costituzionalmente orientata, in forza degli articoli 2, 3, 13 e 32 comma 2 della Carta, il pm giunge in breve a chiedere l’archiviazione». Ma va anche oltre: il procuratore prospetta il caso che se il Gip non accettasse la sua richiesta, si potrebbe ricorrere alla Corte costituzionale.

AD ESSERE PRECISI, spiega l’avvocata, «l’archiviazione di questo fascicolo costituirebbe un precedente giurisprudenziale ma che non impedirebbe però ad altri tribunali di giungere a decisioni opposte», mentre «per far sì che il precedente diventi di portata generale occorre un pronunciamento della Consulta». Che naturalmente può avvenire a prescindere dalla decisione del Gip di Bologna. «Se il Giudice per le indagini preliminari non accogliesse la richiesta di archiviazione – puntualizza l’avvocata Francesca Re che fa parte del collegio difensivo – ha tre mesi di tempo per fissare l’udienza davanti al Gup». «Noi – chiosa Gallo – siamo pronti ad andare avanti in qualunque caso: archiviazione, processo, condanna o rinvio alla Consulta». D’altronde, conclude Cappato, «sono passati ormai quasi cinque anni dalla prima sollecitazione della Corte costituzionale al Parlamento. In assenza di un intervento politico forse è il caso che la Consulta torni sul tema».