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Pane al pane e dittatore al dittatore

In una parola

In una parola La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 13 aprile 2021

Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? La frase di successo di Nanni Moretti in Ecce bombo mi è tornata in mente all’ennesima discussione in tv sui silenzi e sull’eloquio del nostro interessante presidente del Consiglio.

Il già molto autorevole Mario Draghi guadagna ancora in credibilità standosene zitto zitto oppure offrendosi alle domande (per lo più – non me ne vogliano i colleghi – poco insidiose) dei giornalisti ansiosi di saggiarne la resa mediatica?

Un fatto intanto sembra certo: se Draghi viene alla festa, non se ne sta in disparte.

L’ultima conferenza stampa (per ora in tutto la seconda, se non ho già perso il conto) ha insinuato un sottile sospetto nelle file del partito “Draghi deve parlare di più”. Infatti molto si è discusso del piccolo (o grande?) infortunio in cui è incappato il premier facendo l’esempio del poco coscienzioso e giovane psicologo che accettava di essere vaccinato, togliendo il posto al fragile anziano.

Per i critici benevoli una svista veniale, soprattutto perché inserita nel concetto fondamentale – poi tradotto in una direttiva del generale Figliuolo – che sarebbe questa l’ora di concentrarsi sul serio a proteggere con il vaccino – sempre che arrivino le dosi – le persone più esposte ai rischi prodotti dal virus, a cominciare dai meno giovani. Tutti gli altri devono aspettare.

Solo un critico francamente maligno come il direttore del Fatto Marco Travaglio ha voluto osservare che chi ha responsabilità di governo, più che insistere sulle scelte etiche dei singoli, dovrebbe agire – e in un certo senso “parlare” – attraverso norme conseguenti e efficaci (la vaccinazione del giovane psicologo essendo prevista da un decreto governativo). Ma è vero che all’incitamento etico è subito seguito un dispositivo amministrativo.

Più eclatante, complessa e delicata la faccenda del “dittatore” con cui il capo del governo ha apostrofato Erdogan.

Come si sa la parola era contenuta nella risposta a una domanda sul cosiddetto “sofagate”, spiacevole neologismo che allude al comportamento da cafoni dello stesso Erdogan e del presidente del Consiglio europeo Michel, che si sono sveltamente seduti sulle due poltrone di ordinanza lasciando Ursula von der Leyen a smarrirsi su un poco discosto e più basso sofà.

Non pochi hanno più o meno tacitamente pensato a una vera e propria “gaffe” diplomatica.

Ma la lettura positiva prevalente ha da un lato sottolineato che il senso, peraltro esplicito, del discorso era: con questi personaggi poco democratici bisogna comunque avere a che fare. Di più: il sorprendente linguaggio di Draghi forse apre finalmente il discorso della politica a chiamare le cose, e gli uomini, con il loro nome.

Ieri sul Corriere della sera il “retroscena” di Francesco Verderami si apriva così: “Dopo Draghi anche Giorgetti si mette a chiamare le cose ‘per quello che sono’, sostenendo che sui vaccini si sta combattendo ‘una guerra geopolitica’ su cui ‘si gioca il concetto di sovranità’”.

A insistere nella malignità si potrebbe osservare che in fondo si tratta di tautologie. Però è vero che una maggiore franchezza non guasterebbe.

Dietro il “sofagate”, per esempio, c’è il fattaccio dei molti soldi che l’Europa elargisce al dittatore turco perché si tenga buoni a casa milioni di profughi e migranti desiderosi di venire dalle nostre parti.

Viviamo in un mondo in cui, finalmente, non si tollera più uno sgarbo all’autorità di una donna. Non dovrebbe essere tollerato anche questo modo di trattare persone che scappano dalla guerra e dalla fame. Persino se nel trattamento fosse coinvolta quella stessa signora costretta sul sofà.

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