In un importante libro di qualche anno fa, la sociologa Sara Ahmed sosteneva che diveniamo soggetti, anche politici, attraverso le emozioni. La fortificazione dei confini in mare e in terra, per esempio, diviene un confine corporeo, ‘sentito’ sulla pelle.

E così spiegava lo straordinario successo delle destre populiste e xenofobe in Europa e nel mondo occidentale. Non credo sia sorprendente sostenere che anche il discorso pubblico su Palestina e Israele, su ebrei e palestinesi, sia altamente emotivo. Tuttavia, c’è qualcosa di più. Il dibattito pubblico dà vita a vere e proprie economie emozionali che circolano, vengono consumate e producono effetti materiali e politici. Le emozioni paiono avere valore uguale, se non superiore, ai fatti nell’orientare la politica dei soggetti. Investire nell’uno o nell’altro discorso emotivo conferisce identificazione, appartenenza e la sensazione o promessa di controllo.

CHE ALCUNI TENTINO di capitalizzare sulle paure è parimenti chiaro. Si pensi alle sovrapposizioni tra Olocausto e 7 ottobre, tra Hamas e Isis, tra 7 ottobre e 11 settembre. Sebbene questi fatti siano totalmente scollegati e la loro sovrapposizione non abbia nessuna validità storica, la loro associazione emotiva – una volta condivisa e fatta circolare – non solo diviene fatto, ma acquisisce peso politico con innegabili effetti. Questi possono finire con il legittimare i bombardamenti israeliani a Gaza e gli attacchi ai palestinesi nella diaspora. Sabato sera, anche se alla notizia non è stata data visibilità in Italia, qualcuno ha aperto il fuoco su tre giovani studenti di origine palestinese in Vermont, e all’indomani del 7 ottobre un bambino palestinese di 6 anni è stato ucciso a coltellate sempre negli Usa, entrambi i crimini catalogati come frutto di odio anti-palestinese.

C’È DI PIÙ. COME intellettuali tendiamo a credere che i fatti parlino per sé, e che informare sia il nostro dovere. Tuttavia, a chiunque abbia partecipato o assistito a talk show sulla situazione attuale in Palestina e Israele non può essere sfuggito che spesso gli interlocutori non sono interessati ai fatti e tanto meno i media ad informare, quanto a plasmare le sensibilità. In periodi così drammatici, è imperativo chiedersi come le economie emotive forgiano le sensibilità, quali sensibilità divengono normative e dominanti e quali occlusioni e violenze epistemiche queste producano.

UN FATTO PERSONALE può aiutare a capire meglio. Nella scuola primaria frequentata dai miei figli a Cambridge, a un certo punto arrivarono bambini ucraini, accolti con affetto e grande mobilitazione. A scuola vi furono assemblee sulla guerra per aiutare i bambini a trovare un contesto dove collocare e dare voce alle loro paure e traumi. Le famiglie facevano torte e raccolte fondi per supportare la popolazione Ucraina. Pur aderendo con entusiasmo, non smettevo di pensare a come i bambini yemeniti, siriani e palestinesi della scuola si dovevano sentire in quei giorni.

Si saranno chiesti, a modo loro, se quelle nei loro paesi non fossero guerre, se le loro paure e traumi fossero legittimi, condivisibili e intellegibili. Nei mesi successivi una cara amica di Gaza mi raccontò che la scuola l’aveva convocata per porle una rimostranza. Nelle settimane precedenti, a Gaza erano piovute le bombe israeliane, che avevano ucciso dozzine di persone, inclusi 14 bambini. I suoi figli mostravano evidenti segni di trauma e paura, uno di loro era stato visto piangere in un angolo del giardino della scuola durante le ricreazioni, col pensiero costante rivolto al padre e al resto della famiglia. La mia amica fu redarguita perché, le fu detto, era irresponsabile da parte sua traumatizzare i figli con notizie dei bombardamenti di Israele a Gaza.

QUESTA DISSONANZA accompagna i palestinesi in diaspora ovunque essi siano. I palestinesi, soprattutto della mia generazione, sono stati cresciuti interiorizzando la sensibilità dell’altro e facendola propria: adottare certe posture, moderare come e quando dire di essere palestinesi, non parlare arabo a voce alta per non destare diffidenza e soprattutto non mostrare mai rabbia. Dovevamo essere fieri, ma non mostrare sentimenti troppo passionali, per non confermare lo stereotipo di essere troppo radicali. Potevamo raccontare la nostra storia, ma sapendo che avremmo dovuto accettare di non essere capiti o creduti, perché Schindler’s list terminava con gli ebrei finalmente liberati dagli eccidi del nazifascismo, a Gerusalemme. Film dopo film sull’orrore dell’Olocausto, e con la visione dei corpi emaciati e i visi spenti di Auschwitz, siamo cresciuti in Occidente negoziando la nostra posizione nella gerarchia della sofferenza: eravamo le vittime delle vittime. Abbiamo letto e amato Se questo è un uomo di Primo Levi, e solo dopo vari anni, ci siamo finalmente trovati in Orientalismo di Edward Said.

EPPURE, L’EPISODIO della scuola per quanto ordinario è di straordinaria rilevanza per come mostra con dolorosa e lucida chiarezza che le cose non sono cambiate. Al palestinese, decade dopo decade, si continua a chiedere di controllare il proprio dolore e di contenere la propria rabbia, perché urtano la sensibilità del soggetto per eccellenza. La soggettività e il vissuto palestinese sono pressoché in/visibili al di fuori del tropo dello scudo umano e affini, vittima della violenza intrinseca della sua cultura (e religione), a cui si può e deve ribellare mostrando la sua destrezza nel divenire intellegibile alla sensibilità e modernità occidentali.

IN QUESTI GIORNI appesantiti dall’ennesimo brutale femminicidio, abbiamo sentito uomini tentare di capitalizzare politicamente sul sentimento di paura, insicurezza e rabbia delle donne. In nome della difesa delle donne israeliane, uomini bianchi e reazionari hanno utilizzato tropi sessisti e violenti contro altre donne, spesso palestinesi, definendole insignificanti, impresentabili, brutte e vergognose, quando non invocando violenza contro di loro, perché nel manifestare contro la violenza, hanno osato esprimere la loro sensibilità frutto di intersezioni: donne, palestinesi, italiane, credenti o meno, femministe, dis/abili, anticoloniali, giovani, etero, cis o queer.

Uno degli aspetti più dirompenti e nuovi delle mobilitazioni di queste settimane è l’emergere palpabile di ciò che l’attivista nera americana Angela Davis chiama, «l’intersezionalità delle lotte» e, aggiungo, delle identità. Con queste una nuova sensibilità prende forma e tenta di farsi visibile. È ora di fare spazio a queste nuove sensibilità, perché sono qui per restare.

*Antropologa italo-palestinese, è docente all’Università di Bologna