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Palermo unita: no al carcere-hotspot

Palermo unita: no al carcere-hotspotMigranti in arrivo a Palermo – Afp

Migrazioni Il consiglio comunale vota, parere non vincolante per il Viminale ma dal valore politico. Ora tocca alla Regione

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 27 maggio 2018

Il consiglio comunale è stato unanime: «no» all’hotspot. Destra e sinistra l’hanno bocciato senza mezzi termini, anche se con motivazioni opposte. Ma la decisione dei 40 consiglieri, dal forte valore politico, non è vincolante; non basta a fermare il progetto del Viminale.

La palla ora è nelle mani della Regione siciliana. Anzi, di un assessore. Si chiama Toto Cordaro, ex cuffariano e in passato presidente del consiglio comunale di Palermo. Cordaro ha la delega al Territorio. Sarà lui a decidere se autorizzare la variante al piano regolatore del comune dando così l’ok all’hotspot oppure prendere atto del parere negativo del consiglio.

Domani Cordaro riceverà in assessorato i capigruppo del consiglio comunale, la riunione si annuncia infuocata. «I cittadini non vogliono il centro», dice Sabrina Figuccia, consigliera Udc e tra le animatrici della protesta di un gruppo di persone che ha manifestato contro il progetto. Anche l’amministrazione comunale, a parte qualche tentennamento iniziale probabilmente dettato dalle pressioni ministeriali, si è schierata contro l’hotspot.

Tant’è che il sindaco Leoluca Orlando ha fatto sapere che si rivolgerà alla giustizia amministrativa se la Regione dovesse dare l’ok. Il progetto da 7 milioni e 200mila euro, targato Invitalia (braccio operativo del governo), prevede la realizzazione di una maxi-struttura (15mila metri quadri tra coperto e scoperto) con almeno 400 posti letto, dove trattenere i migranti, presidiata h24 dalle forze di polizia, in una zona a nord di Palermo: l’area è un terreno confiscato alla mafia, tra i quartieri Zen e Pallavicino, abbandonato da alcuni anni, sul quale insistono vincoli paesaggistici e burocratici precisi, che il «sistema» sta cercando di superare sfruttando ogni meandro normativo.

E un ruolo di primo piano, in questa storia, se lo è attribuito la Soprintendenza di Palermo, ramo amministrativo dell’assessorato regionale ai Beni culturali. Un dipartimento che in Sicilia gode di piena autonomia, avendo la Regione pieni poteri in materia come da statuto speciale. Il «blitz» è arrivato il 27 marzo.

Mentre Vittorio Sgarbi proprio quel giorno annunciava di avere firmato le dimissioni usando parole di fuoco (poi se le rimangerà) contro il governatore Nello Musumeci, dirigenti e funzionari della soprintendenza firmavano il parere positivo al progetto dell’hotspot. I tecnici dicono sì nonostante sotto quel terreno le carte indichino l’esistenza di una rete di qanat, canali sotterranei che gli arabi costruivano per l’approvvigionamento idrico e quindi patrimonio storico-culturale.

Non solo. In quel terreno insiste un antico giacimento di rame e l’area, in base al piano regolatore del comune, è iscritta come agricola, con un eventuale vincolo per impianti sportivi. Prescrizioni che secondo la Soprintendenza decadono di fronte a un presunto interesse di ordine pubblico.

«Una decisione senza senso – attacca Giusto Catania, consigliere di Sinistra comune – A Palermo, città dell’accoglienza e l’integrazione, non è mai esistito un problema di ordine pubblico, semmai è la scelta di costruire un hotspot a destabilizzare e a creare un clima di paura tra la gente».

L’accelerazione all’iter arriva il 10 aprile in una riunione in Prefettura. Altro tempismo, singolare. Fuori Sgarbi, quel giorno era è il governatore Musumeci ad avere l’interim ai Beni culturali; il nuovo assessore, l’archeologo Sebastiano Tusa, sarà nominato il giorno dopo, dopo una attesa lunga 15 giorni.

Per Nicola Fratoianni, leader di Si, «la decisione della città di Palermo è un fatto importante a livello nazionale ed europeo». «Il fallimento della politiche migratorie – afferma – basate su campi di concentramento dentro e fuori le nostre frontiere, sulla clandestinizzazione dei profughi, sull’idea che la sicurezza sia fatta di muri, fili spinati e stragi di esseri umani che annegano nel Mediterraneo, apre la strada a stato di polizia, segregazione razziale e cancellazione di altri diritti democratici, come dimostra l’Ungheria di Orbán o la Turchia di Erdogan. Palermo invece chiama tutta la sinistra di questo paese ad affrontare la sfida della sicurezza nei diritti, dell’innovazione delle pratiche dell’accoglienza che sappiano trasformare i problemi in risorse».

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