Per un milione e settecentomila migranti afghani scade oggi l’ultimatum del governo pachistano: lasciare il Paese volontariamente o essere deportati in Afghanistan.

La misura è stata annunciata a sorpresa meno di un mese fa, il 7 ottobre, rischia di ledere i diritti fondamentali di chi cerca asilo e protezione e ha già provocato un terremoto sociale. Secondo i dati diffusi dalle autorità di Islamabad, in poche settimane sarebbero già 200mila gli afghani tornati volontariamente nel proprio Paese di origine, al ritmo di 4.000 al giorno. Nel momento in cui scriviamo, dozzine e dozzine di camion carichi di valigie, coperte, pochi utensili, trasportano verso il confine le famiglie afghane che hanno deciso, spesso dopo molte pressioni da parte delle forze di polizia, di lasciare il Pakistan.

La misura introdotta il 7 ottobre sulla carta non è rivolta solo agli afghani, ma a tutti gli stranieri irregolari, privi di documenti certificati dalle autorità. Nella pratica, però, mira proprio alla corposa comunità afghana: insieme all’Iran, sul confine occidentale dell’Afghanistan, il Paese dei puri, sul confine orientale, è stato la destinazione privilegiata per milioni e milioni di afghani a partire dal 1978-79, con l’innesco della prima fase della lunga guerra afghana.

OGGI TRA GLI AFGHANI che risiedono in Pakistan e che secondo Islamabad dovrebbero andarsene molti sono residenti di lunga data: lì sono cresciuti, si sono sposati, hanno avuto figli e avviato attività commerciali, pur senza ottenere o cercare una registrazione ufficiale presso le autorità. Altri invece sono arrivati più di recente: secondo alcune stime, dopo il ritorno al potere dei Talebani nell’agosto 2021 sarebbero stati 700mila. Tra loro, persone che hanno deciso di lasciare l’Afghanistan a causa delle politiche discriminatorie verso le donne volute dalle autorità di fatto, oppure perché potenziali bersagli della rappresaglia delle nuove autorità, in quanto ex membri dell’intelligence, delle forze di sicurezza, degli apparati istituzionali. Per loro, e per i più vulnerabili, Islamabad promette una deroga, in particolare per coloro che aspettano di ricevere dalle ambasciate straniere il via libera per quei “corridoi umanitari” che li conducano in Paesi sicuri, in Occidente.

MA CRESCE DI GIORNO in giorno una vera e propria ostilità istituzionale e le “missioni” della polizia per individuare le famiglie afghane nei quartieri e nelle cittadine dove sono più radicati. Mentre il ministro a interim degli interni, Mir Sarfraz Bugti, ha minacciato ripercussioni per chiunque dia loro protezione o gli permetta di nascondersi.

Le organizzazioni a tutela dei diritti umani, tra cui Amnesty International, e le agenzie delle Nazioni Unite ribadiscono invece l’appello rivolto al primo ministro a interim, Anwaar ul Haq Kakar, affinché rinunci immediatamente alla decisione di deportare forzatamente gli afghani, una pratica che contraddice gli obblighi internazionali e il principio di non-refoulement, di non respingimento. Per ora, il governo pachistano tira dritto.

L’ultimatum è infatti rivolto anche alla comunità internazionale, affinché sostenga meglio e di più, finanziariamente, l’accoglienza degli afghani. Ma è soprattutto rivolto a Kabul, ai Talebani. Secondo Islamabad, infatti, la stretta repressiva sugli afghani è giustificata dai numeri: molti dei responsabili degli ultimi attentati in Pakistan sarebbero cittadini afghani. Inoltre, Islamabad accusa Kabul di non esercitare sufficienti pressioni sul Tehreek-e-Taliban Pakistan, i Talebani pachistani, i quali godrebbero di sostegno e ospitalità sul territorio afghano.

KABUL IN PASSATO ha provato a mediare una tregua, durata pochi mesi, tra Islamabad e i “cugini” pachistani. Ora nega complicità, e ha definito irresponsabile la decisione di Islamabad, istituendo in ritardo un’apposita Commissione, mobilitando anche i mezzi del ministero della Difesa per gestire l’alto numero di afghani in arrivo. Già in passato, con numeri ben inferiori e risorse ben maggiori, il rientro in Afghanistan dei migranti dal Pakistan ha destabilizzato intere province, a partire da quella di Nangarhar, sul confine. Oggi le ripercussioni rischiano di essere gravissime.