Un vetusto stereotipo discrimina giornalismo e letteratura, dove il primo termine corrisponderebbe alla superficie e il secondo alla profondità, l’uno alla nuda comunicazione, l’altro a una più complessa espressione: passibile di infinite varianti, questa distinzione di comodo è del tutto insignificante per un autore come Osvaldo Soriano, che nella sua troppo breve parabola seppe tradurre il giornalismo in letteratura tout court, come sanno i più anziani lettori del «manifesto», del quale fu collaboratore nei suoi ultimi anni di vita.

Edito per la prima volta in italiano da Rizzoli nel 1986, Artisti, pazzi e criminali viene ora riproposto da Sur nella storica e sempre valida versione di Vittoria Martinetto e Angelo Morino («Nuova serie», pp. 252, € 17,50). Quando il libro uscì nell’Argentina liberata dalla junta del macellaio Videla, Soriano era da poco tornato dall’esilio europeo in Francia e in Belgio, e la sua bibliografia si componeva di appena tre titoli: l’esordio del ’73, che oggi diremmo modernista, Triste, solitario y final, su un’America mai vista e tutta reinventata, con l’omaggio a Raymond Chandler e Stan Laurel; poi il dittico scritto nel pathos premonitorio che annuncia la catastrofe argentina, Mai più pene né oblio e Quartieri d’inverno.

Passaggi politici
Costituito di sedici reportage usciti fra il ’71 e il ’74 su «La Opinión», il quotidiano progressista di Jacobo Timerman via via ipotecato (quando Soriano era ormai altrove) e alla fine ridotto a megafono propagandistico dalla dittatura, Artisti, pazzi e criminali alterna ritratti, interviste, ricordi personali o collettivi e combina le passioni dello scrittore con i suoi miti, che erano quelli di un qualunque giovane argentino di sinistra nei primi anni Settanta: il cinema, il tango, lo sport e specialmente la boxe e il calcio (come papa Francesco, lo scrittore era acerrimo tifoso dei rossoblù del San Lorenzo de Almagro, uno dei grandi club metropolitani di Buenos Aires) infine la politica. Il Soriano trentenne guardava in particolare al gruppo dei Montoneros e più in generale al movimento dei cosiddetti descamisados, la base operaia e studentesca che tendeva apertamente a sinistra e avversava sia le ricorrenti tentazioni golpiste dell’esercito sia il trasformismo autoritario dei peronisti di palazzo.

Non a caso, i tre servizi baricentrici di Artisti pazzi e criminali risalgono all’anno 1973 quando Perón tornò per l’ultima volta al potere innescando la resa dei conti interna al giustizialismo, che inaugurava la guerra civile tra l’establishment (il peronismo di governo con il volto truce del «delfino» José López Rega) e la piazza dominata dalla JP (Juventud Peronista) dove si alternavano ora progetti di cosciente strategia politica ora pulsioni di sfrenata demagogia populista (e, al riguardo, basterebbe leggere il capitolo undicesimo, L’elezione di Peròn e l’omicidio di Rucci, che in poche pagine sa restituire il volto ancipite o anzi schizoide di un paese passato in poche ore dal giubilo per il plebiscito del redivido Presidente allo sgomento per l’assassinio del maggiore esponente del sindacalismo).
Ma le pagine più felici e sbrigliate, da parte di chi pure si presenta come un giornalista di estri svogliati e intermittenti, sono per la musica e lo sport.

Splendido è ad esempio il ritratto del pianista e compositore Lucio Demare (cui si deve fra l’altro il celeberrimo Malena, un classico tango) anche se Soriano non ha mai scritto il profilo dell’autore che più gli somiglia nel ritrarre destini di falliti e di emarginati, colui che firmò Cambalache, il grande Enrique Santos Discépolo (mentre del mito nazionale Gardel si è occupato in un’altra raccolta: Ribelli, sognatori, fuggitivi. Società narrata, Manifestolibri 1991): «Demare venne in redazione e registrammo almeno tre ore di ricordi della sua vita di musicista e di compositore. Morì tre o quattro giorni dopo l’uscita del pezzo. Io stesso scrissi il necrologio che pubblicò il quotidiano e, per me, fu come seppellire mio padre».

Quanto allo sport, alle pagine su due pugili dal destino tragico come l’argentino José Maria Gatica o Sonny Liston, ex campione divenuto un paria e morto a nemmeno quarant’anni nel ’70 in circostanze mai chiarite, va ad affiancarsi il pezzo calcistico Obdulio Varela. Il riposo del re del centrocampo, condotto in prima persona, a microfono aperto, dal capitano dell’Uruguay, che nella finale del Campionato del mondo 1950 batté il Brasile suggellando la tragedia nazionale passata alla storia come Maracanaço (e ne legge da par suo un frammento in youtube Toni Servillo): «Il 16 luglio del 1950 – scrive Soriano introducendolo – nello stadio Maracanà di Rio de Janeiro nacque una delle ultime leggende del calcio rioplatense: quel giorno l’imponente centromediano dell’Uruguay, Obdulio Varela, mise a tacere centocinquantamila tifosi che inneggiavano al gol brasiliano durante la finale di Coppa del Mondo».

E qui, a proposito di calcio, va aggiunto che le pagine di Soriano si collocano in una fitta rete intertestuale di scrittori rioplatensi patiti di quel fútbol che ogni volta declinano in modo differente: ecco Eduardo Galeano che ne fa un bestiario esopico (e il suo Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling&Kupfer 1997, ingloba un racconto di Soriano stesso) o Osvaldo Bayer che in Fútbol. Una storia sociale del calcio argentino (Alegre 2020) ne fornisce il diagramma analitico o anche Sergio Levinsky, il maggiore biografo di Maradona (Una vita presa a calci, Limina 1998) che funge da prima voce nel film Il Mondiale dimenticato (2011, regia di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni), un falso documentario direttamente derivato dal racconto sorianesco Il figlio di Butch Cassidy incluso nella raccolta Pensare con i piedi (’94) ma escluso purtroppo dalla comunque ottima antologia I racconti degli anni felici. 1974-1996 (a cura di Paolo Collo e Glauco Felici, Einaudi 2007).
Da lui, una scuola

Capacità di attenzione prolungata per cogliere l’insieme da un dettaglio, costruzione essenziale della frase dove abbondano nomi e verbi mentre sono centellinati aggettivi e avverbi, grande rapidità di esecuzione che viene duplicata in uno stile velocissimo e quasi asindetico, ritmato dai soli punti fermi, laddove l’amato Chandler può richiamare Stendhal e una scrittura deliberatamente à la diable, cioè semplice e per così dire buttata via: sono queste le caratteristiche del giornalismo di Soriano che diviene ipso facto letteratura, come l’autore suggersisce quando nell’introduzione a Artisti, pazzi e criminali rammenta il fatto che il lavoro alla «Opinión» (cui farà eco, molti anni dopo, la fondazione di «Pagina/12») è stato un «addestramento letterario» condotto all’interno di un vero e proprio laboratorio.
Oggi non soltanto il nome dello scrittore è entrato nel senso comune ma, se si guarda al racconto dello sport, ha fatto scuola: lo testimoniano da ultimo sia il volume collettivo Mai più triste né solitario (Urbone 2021, con il contributo fra gli altri di Massimiliano Castellani e Darwin Pastorin) sia il fatto che un riconoscimento di chiaro segno etico-politico, Più a sud di Tunisi (Portopalo, a cura di Sergio Taccone), proponga ogni anno una Targa Soriano: è un piccolo vivido segno che contraddice la nera qualità dei tempi.