Oscure presenze tra inermi condomini nel noir di Zygmunt Miloszewski
Nulla nello stabile di via Kondratowicz, civico 41, quartiere di Bródno, Varsavia, può impedire che i suoi inquilini, spaccato banale e tragico della Polonia nel terzo millennio nascente, siano travolti da un destino spietato e condiviso. Nonostante l’immagine di Gesù misericordioso, che torna a ossessionare come nelle visioni di suor Faustina Kowalska, onnipresente nell’appartamento della cattolicissima Anna Maria Emilia Wierzbicka, così esasperata dagli eventi condominiali da arrivare quasi a sopprimere la vecchia madre allettata, noncurante delle sue devozioni al punto di divorare una piccola riproduzione su carta della sacra icona nazionale. Madre e figlia sono solo due tra gli sventurati abitanti del palazzone nel quartiere sulla riva orientale della Vistola, celebre per il suo cimitero, uno dei più grandi d’Europa. Due vite in un elenco casuale di esistenze strappate a una quotidianità avvilente, o quanto meno senza reali sviluppi, descritte dal polacco Zygmunt Miłoszewski nel suo romanzo d’esordio Il citofono (traduzione di Raffaella Belletti, Voland, pp. 360, € 18,00), un noir dove la trama oppressiva e avvolgente mette in scena la progressiva mattanza di un’umanità malcapitata, la cui unica colpa è stata quella di acquistare un appartamento in un casermone costruito su un terreno dannatamente edificabile.
L’11 ottobre del 2002 la quotidianità condominiale viene stravolta dalla decapitazione di un uomo nell’ascensore: solo la testa (con gli occhi terrorizzati) ha raggiunto il piano desiderato, dopo aver visto qualcosa di terribile. Tre i protagonisti: Wiktor, un giornalista, lasciato dalla moglie, che beve e gioca la sua ultima carta nella scrittura; Agnieszka, una ragazza sveglia arrivata dalla provincia col suo compagno, artista sfaccendato; Kamil, un ragazzo cresciuto in una famiglia che lo opprime, ma della quale poco gli importa. Senza le scoperte di questi tre intraprendenti incompresi, la comunità condominiale sprofonderebbe nell’abisso, incapace di ragionare, prigioniera delle proprie paure, assediata da una sostanza nera e viscida che striscia nelle case: un blob alieno e pensante, che riattiva i ricordi peggiori, la cui comparsa è preceduta da morti che progressivamente decimano le assemblee degli inquilini. All’ordine del giorno, la fuga dallo stabile; ma porte e finestre non si aprono; telefoni e radio sono fuori uso; mancano l’acqua e il cibo. Solo il citofono funziona, collegato con l’inferno delle anime vaganti prigioniere dell’edificio. Pronto ad abbandonare la scena di ogni delitto, il blob «mnestico» inghiottisce la luce e materializza gli incubi.
Miłoszewski è un giallista, e questo libro – come altri successivi – ha l’impianto di una sceneggiatura: narrazione a volte rapsodica, azioni improvvise, cambi di scena, dialoghi serrati, ritmi prima lenti che poi precipitano lungo una china cinica ma risolutrice, infine salvifica. Miłoszewski cita espressamente nel suo libro Stephen King, e il palazzo del Citofono ricorda infatti l’Overlook Hotel di Shining: non a caso entrambi sorgono su dei cimiteri.
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