Sulla rotta fra Istanbul e Alessandria, l’isola di Mingher – rinomata per il suo marmo e le sue rose – attraversa, nei primi sei mesi del 1901, il periodo più travagliato della sua storia. Benché l’isola non esista se non nella immaginazione di Orhan Pamuk – che vi ambienta il suo ultimo romanzo, Le notti della peste (traduzione di Barbara la Rosa Salim, Einaudi, pp. 720, euro 25,00), sulle sue sponde approdano personaggi storici e altri ne guidano le sorti a distanza, cercando di governare, con quel tanto di corruzione di cui soffre la politica ma si avvantaggia la finzione, una epidemia di peste le cui origini scatenano le più diverse congetture.

Il sultano Abdul Hamid, per esempio, ultimo grande dell’Impero ottomano, considera l’allarme scatenato dalla peste un escamotage politico per attentare alla sua sovranità. Sulla sua figura di amante dei romanzi gialli e seguace di Sherlock Holmes, convergono la storia riportata nei libri di testo e l’immaginazione di Pamuk: fa parte della realtà il fatto che il sultano consegnò una medaglia dell’Ordine di Mecidiye a Arthur Conan Doyle quando lo scrittore era a Istanbul in luna di miele; è frutto dell’immaginazione, invece, il suo ordine di dirottare una nave diretta in Cina per far scendere a Mingher il chimico reale Bonkowski Pascià insieme al suo assistente Ilias, entrambi incaricati di sconfiggere la peste e entrambi assassinati in circostanze diverse.

Proprio il sacrificio immediato della promettente figura romanzesca di Bonkowski innesca il dispositivo dell’intreccio, sul quale si affolleranno fin da subito altre intriganti figure. Per sostituire nella lotta all’epidemia il defunto Bonkowski viene inviato sull’isola il dottor Nuri, consorte della principessa Pakize, terza figlia di Murad V, detronizzato con la scusa del suo umore instabile. Nata nel quarto anno della reclusione di suo padre, Pakize aveva vissuto nel palazzo dove i suoi erano confinati, per poi approdare insieme al marito sull’isola di Mingher, dove a causa della peste sarebbe stata di nuovo costretta entro le mura del palazzo del governatore.

Non a caso, come si scoprirà molto avanti nel romanzo, alle figure della principessa e del dottore suo consorte viene riservata una speciale immunità dal sarcasmo: nel suo uscire allo scoperto, la voce narrante si rivela essere la pronipote di Pakize, incaricata di curarne la corrispondenza con la sorella maggiore, in vista della pubblicazione. Dalle centotredici lettere «di inestimabile ricchezza» scritte dalla principessa fra il 1901 e il 1913 derivano tutti i racconti delle vicissitudini, degli intrighi, delle pene e degli amori che si consumano nelle Notti della peste, mentre la voce narrante ci avverte sul suo modo di procedere: «Nel ripercorrere le hegeliane “tappe della storia” dell’isola di Mingher, a volte riporteremo le vicende così come sono raccontate nei libri di scuola, altre volte le correggeremo».

Intanto, sullo sfondo, diverse fazioni politiche si contendono il potere, approfittando della quarantena per accelerare spinte nazionaliste o favorire la conquista dell’isola da parte della Grecia, mentre le potenze straniere accerchiano le coste per scongiurare che si diffonda il contagio. Tutti diffidano di tutti, si moltiplicano i divieti, poi le revoche, poi le nuove misure di sicurezza, fino alla dichiarazione del coprifuoco, mentre il governatore Sami Pascià, che aveva inizialmente negato la pestilenza, arriva velocemente a fare affari con gli equipaggi delle barche che trasportano di nascosto i fuggiaschi dall’isola. Due momenti chiave, tra loro legati, determinano il destino dell’isola: prima il cosiddetto «colpo del telegrafo», capeggiato dal maggiore Kamil allo scopo di tagliare ogni via di comunicazione tra l’isola di Mingher e il sultano, nella convinzione che solo governandosi in piena autonomia si potrà dichiarare la fine della quarantena e avere ragione dell’epidemia; poi la dichiarazione dell’indipendenza.

Eroe nazionale, il maggiore Kamil passerà alla storia, non solo per le sue gesta memorabili ma anche per il suo amore con Zeynep, a sua volta icona dell’isola sottratta al banditesco Ramiz, che ordirà ogni sorta di complotto per vendicarsi.

Del resto parliamo con Orhan Pamuk, che cominciò a scrivere Le notti della peste cinque anni fa, e era quasi arrivato a concluderlo quando l’epidemia di Covid dilagò nel mondo. Approfittiamo dunque del suo passaggio a Napoli, prima tappa di una tournée italiana, per esaminare con lui la natura dei personaggi messi in campo e dirimere alcuni passaggi di un intrico oscillante tra la storia degli ultimi anni dell’impero ottomano, l’allusione a fatti e persone realmente esistiti e clamorosi frutti dell’immaginazione.

Essere scrittori, lei ha detto, comporta il prendere coscienza delle ferite segrete che portiamo dentro di noi, esplorarle pazientemente, studiarle. Le ferite che ha preso in considerazione prima e durante la scrittura di questo libro in che relazione stanno con la fine dell’impero ottomano?

Un rapporto di certo ce l’hanno, perché così come si presenta oggi, Le notti della peste è soprattutto un affresco molto realistico del disfacimento dell’impero ottomano, scritto con una attenzione amorevole verso i dettagli. Mentre in un romanzo come Neve analizzavo soprattutto le ferite personali, qui indago e drammatizzo le ferite segrete di una nazione. C’era una volta un grande impero, ecco cosa ne rimane: un piccolo stato nazionale, l’immaginaria isola di Mingher, con una povera lingua, fatta di pochi elementi.

Per tenere in piedi una nazione, nuova o rifondata che sia, occorre inventarsi dei miti: miti laici, perché Dio è tramontato nella figura del sultano. Le notti della peste è un romanzo ambizioso, che copre la storia di un secolo, e ha un respiro tolstojano. Riguarda principalmente le strategie di ricostruzione di una nazione sulle ceneri di un impero tramontato.

Come si è evoluta nel tempo l’idea che sta alla base del libro?

Ho cominciato a pensarci circa trentacinque anni fa: avevo inizialmente immaginato di ambientare il romanzo nel medioevo e di drammatizzare i miei personaggi scavando nella loro soggettività. L’idea era che quando la propria mente è troppo rivolta alla morte si diventa necessariamente egoisti. Mettere in primo piano l’individualismo dei personaggi era, allora, il mio argomento prioritario. Personaggi che svolgevano ricerche sul medioevo ottomano erano già in altri miei libri, per esempio nella Casa del silenzio, così come anche la peste già era comparsa in altri miei romanzi. Poi però cambiai direzione e rivolsi il mio interesse alle tesi degli orientalisti: l’idea dei viaggiatori occidentali che visitando paesi del Levante, paesi musulmani e la stessa Turchia, incontravano persone che giudicavano terribilmente fataliste, e che perciò, per esempio, di fronte a una epidemia di peste non consideravano necessario applicare misure come la quarantena. Pensavo a critiche dell’orientalismo come quella di Edward Said, ma poi ancora una volta scartai questa idea e dopo avere fatto molte ricerche sulle tre grandi epidemie di peste che nel 1897 hanno ucciso circa 20 milioni di persone in Asia e poche in Occidente e negli Stati Uniti approdai all’impianto attuale.

Mi piace pensarmi come un romanziere a cavallo tra oriente e occidente, in un continuo alternarsi e confrontarsi di prospettive opposte. Via via che leggevo testi storici in vista della stesura di questo libro mi rendevo conto del fatto che, a fronte di flagelli come le pandemie, i governi sono sempre stati indotti a imboccare derive autoritarie. Quando Erdogan virò verso una svolta decisamente repressiva mi dissi che quella era una buona contingenza per tentare un romanzo che è anche una allegoria politica rivolta ai cittadini turchi. E, quando stavo per finire, l’arrivo del Covid mi ha sorpassato nei miei intenti. Ero molto spaventato, ma più leggevo testi sulle epidemie nel passato più mi rendevo conto del fatto che al tempo della peste bubbonica, quando una persona colpita su tre moriva, la gente non aveva tuttavia altrettanta paura. Non sapevo spiegarmi il mio grande spavento, e per la prima volta questa mia paura l’ho fatta introiettare ai miei personaggi.

Tanto in «Istanbul» che in «Neve» lei ha proiettato la sensazione che chi viveva nell’impero ottomano si sentiva un po’ fuori dalla storia, in un luogo privo di importanza per il resto del mondo. Qui, i funzionari dell’isola di Mingher vivono questa stessa sensazione in modo radicale. Forse proprio il loro senso di impotenza fa sì che governino a forza di divieti?

Sì, è così. Tenga conto del fatto che la mia è una storia di provincialismo: ne ho parlato da un punto di vista personale nel mio libro dedicato a Istanbul, mentre in Neve ho proiettato questo problema in una dimensione più sociale. Tra quelle pagine, l’isolamento era derivato dalle condizioni climatiche, perché tutto nel paesaggio era coperto dalla neve; qui, invece, l’isolamento è dovuto sia al diffondersi della peste che al blocco navale imposto dalle potenze europee intorno all’isola per scongiurare il contagio.

Mi serviva descrivere una condizione di totale isolamento perché è in situazioni come queste che, a mio parere, la storia scorre più veloce, e tutto si concentra in un distillato di eventi in cui i singoli hanno più potere di determinare la rotta. Da Tolstoj a Marx, in tanti hanno riflettuto sul ruolo dell’individuo nella storia: io mi sento a cavallo, come dice la voce narrante del mio libro, tra coloro che pensano che la soggettività degli individui abbia un ruolo irrilevante nel prodursi degli eventi e coloro che la pensano come determinante.

C’è un passaggio del suo libro in cui il maggiore Kamil è nell’ufficio postale e avvicinandosi a un enorme orologio a muro riflette su quanto quell’oggetto lo avesse sempre attratto. Non solo questo rimando, ma molti passaggi dove si ironizza sulla corruzione intrinseca ai vari poteri rimandano al romanzo di Tanpinar, «L’istituto per la regolazione degli orologi». È un riferimento che aveva presente?

A una domanda così diretta non posso se non rispondere confessando quel che intendevo tenere nascosto: ebbene sì, il riferimento c’è, anche se non è così diretto perché il rimando a Tanpinar passava, nelle mie intenzioni, piuttosto attraverso l’idea del tempo di Bergson. E, peraltro, pensavo anche a un personaggio dell’Urlo e il furore di Faulkner che rompe un orologino. Sono simbolismi che mi affascinano moltissimo, anche se qui cerco di trascinare questi influssi sul piano del realismo storico.

Quando uscì «Il museo dell’innocenza» lei disse che nei suoi romanzi la felicità mostra il suo lato più buio, più demoniaco e irrazionale. Qui però lei sembra avere regalato ai due coniugi Kamyl e Zeynep, la cui storia d’amore funziona da «collante dell’identità mingheriana», un tipo di felicità molto più naive…

Nel romanzo, le coppie felici sono due, e sono entrambe fresche di nozze. Kamyl e Zeynep provengono dall’alta borghesia e la loro indole aspira al movimento, guarda al futuro. Non a caso si crogiolano nel lessico di una lingua, quella dell’isola di Mingher, ancora giovane, una lingua primaria, dell’infanzia. L’altra coppia, quella formata dalla principessa Pakize e dal dottor Nuri, un medico di successo, è per la conservazione, per la difesa di quanto già possiede, e inevitabilmente guarda al passato.

Sono queste le due declinazioni della felicità che metto in campo nel romanzo, effettivamente assai diverse da quella che lei ricordava e che forse sono sintetizzabili nella parole che metto in bocca a un personaggio del Museo dell’innocenza: «è stato il momento più felice della mia vita ma non lo conosco».

Per quanto riguarda invece il mio personale atteggiamento nei confronti della felicità, ricordo che Puškin si domandò una volta chi si sarebbe fatto carico di descrivere i problemi sociali della Russia visto che tutti gli scrittori russi suoi contemporanei non facevano che descrivere la felicità della loro infanzia. Bisognerebbe potersi godere i propri piaceri fanciulleschi in modo adulto: riuscire a essere al tempo stesso socialmente integrati e funzionanti, e felici come i bambini di una fiaba. A me pare di esserci riuscito: mentre scrivo un romanzo mi scordo di tutto, ridivento il bambino che ero quando scomparivo nella mia stanza dei giochi finché mia madre non apriva la porta e mi scopriva lì. E però al tempo stesso non mi sento fuori dal mondo.

Come descriverebbe l’evoluzione del suo stile nei quasi cinquant’anni passati dal suo primo romanzo?

Lo stile riguarda a mio parere il modo di organizzare le frasi, e in questo a me non pare di essere cambiato, mentre direi che la costruzione della struttura dei miei romanzi ha passato fasi diverse. Ho avuto un esordio molto ottocentesco, ma subito dopo ho cominciato a desiderare di sperimentarmi su vari fronti, per esempio sui cambiamenti del punto di vista, sulle alternanze della voce narrante, sui salti nel tempo all’interno dello stesso romanzo.

Ho provato a scrivere alla Proust, cioè a combinare in una stessa frase passato, presente e conseguente cambiamento del punto di vista di chi racconta. Dopo avere sperimentato, anche un po’ acrobaticamente e con una certa audacia, alcune incursioni nell’avanguardia, adesso sono tornato a un realismo ottocentesco, che tuttavia si è molto giovato di quanto ho appreso nella fase più sperimentale. Ma non mi sono mai mosso lungo una linea progressiva e costante, ho appunti per cinque sei romanzi, quindi lavoro diversamente a seconda del progetto cui metto mano.

L’incontro dei due massimi esperti di quarantena dell’Impero ottomano, il dottor Nuri e Bonkowski Pascià, a bordo della nave del sultano è o non è una mera casualità?

La domanda è nel romanzo, ed è senza soluzione, ma io dico che a far viaggiare i due esperti sulla stessa nave è stata l’intenzione del sultano. Nei miei romanzi, del resto, ci sono molte poche coincidenze. Scrivo lentamente in modo da poter via via allestire la scena, e quel che mi interessa è la consequenzialità logica. Le coincidenze esistono ma non sono una necessità: la vedo in modo hegeliano. Non mi interessa il prodigio della coincidenza, la forza motrice per me è la logica della inevitabilità, ed è questa che cerco di indagare.

Si direbbe che nel romanzo la peste funzioni soprattutto come una sfida all’autorità costituita. È così?

Sì, alla fin fine è una presentazione dell’autoritarismo della politica turca, ma è anche un romanzo storico di grande realismo, che tratteggia una panoramica della disgregazione dell’impero, in cui ho profuso moltissime energie. Ho fatto ripetute ricerche per controllare tutti i dettagli relativi alla sanità nell’impero ottomano, al sistema ospedaliero, ai vari governatori che si sono succeduti, allo sviluppo della posta e dei telegrafi, delle forze armate, del sistema di navigazione.

Insomma ci ho messo tutta l’acribia di cui sono capace. Ma la mia isola di Mingher rimane un luogo kafkiano.

Nel maggiore Kamil, protagonista della indipendenza dell’isola di Migher dal sultanato, lei descrive una figura di eroe nazionale sulla quale si scaglia con particolare ironia. Si direbbe che abbia voluto rappresentare la figura di Kemal Atatürk, cosa che le ha già procurato dei guai, giusto?

Infatti, è l’accusa che mi ha portato il pubblico ministero addetto all’editoria; ma quando gli ho chiesto di indicarmi a quale pagina si riferisse non me lo ha saputo dire. Questi ultranazionalisti alla fin fine non conoscono la storia, non sanno che la fondazione della Repubblica turca somiglia molto a quella di altre repubbliche nate dalle ceneri di un impero. Fisicamente il mio personaggio non ha nulla a che fare con Atatürk, e la sua vicenda coniugale nemmeno.

Sono stato molto attento a non far toccare a Kamil una goccia di alcol, mentre stando a quanto dicono gli islamisti Atatürk alzava il gomito volentieri. Insomma ho usato tutta la circospezione possibile, eppure c’è qualcuno che si è lamentato ed è andato a denunciarmi; ma il mio avvocato mi ha detto che non arriveranno mai a una sentenza perché queste vicende si perdono nella burocrazia di Ankara.

Appena pubblicato in Turchia, «Le notti della peste» è stato oggetto di una tesi di dottorato, in cui Pinar Umman mette in campo la teorizzazione delle «comunità immaginate» di Benedict Anderson, l’idea di «contagio mimetico» di René Girard, il concetto di «biopolitica» di Michel Foucault, il confronto con il «reale» lacaniano, l’uso del concetto di «pharmakon» da parte di Jacques Derrida… Questi riferimenti li aveva in mente mentre scriveva?

Non sapevo di essere così interessante. Comunque, anche se queste teorie non sono nella mente dell’autore non è detto che non si trovino nel libro. A differenza di tanti amici che si limitano a leggere romanzi, io ho letto molta teoria e la leggo ancora, anche se sono più contento di produrre oggetti romanzeschi che di prestare attenzione alle teorie che li riguardano.

Scrivendo questo romanzo pensavo, piuttosto, all’invenzione della tradizione così come ne parla Hobsbawm, al fatto che il collante di una nazione sta nei suoi miti tanto necessari quanto sono magari falsi, inventati, o banali benché collocati su un piedistallo.