Orhan Pamuk, fantasmagorici frutti di un sogno segreto, in quadernetti 8 x 14
Incontri letterari In «Ricordi di montagne lontane» (Einaudi), i taccuini sui quali lo scrittore turco annota le sue giornate, fatte di romanzi in fieri, riverberi, colori, disegni dei paesaggi ai quali è via via esposto nei suoi molti viaggi. In mostra a Fontanellato, Labirinto della Masone, una scelta degli originali: fino al 17 marzo
Incontri letterari In «Ricordi di montagne lontane» (Einaudi), i taccuini sui quali lo scrittore turco annota le sue giornate, fatte di romanzi in fieri, riverberi, colori, disegni dei paesaggi ai quali è via via esposto nei suoi molti viaggi. In mostra a Fontanellato, Labirinto della Masone, una scelta degli originali: fino al 17 marzo
Un bambino, e per giunta felice, di nome Orhan Pamuk, che a giugno spegnerà la sua settantaduesima candelina, ha deciso di raccogliere e esibire i taccuini di medio formato (8,5 × 14 cm) dove dal 2009 annota i suoi pensieri, disegna e colora, sforzandosi di stringere in ogni pagina una sola giornata: sforzo peregrino, perché figure e pensieri regolarmente debordano dai margini e invadono lo spazio destinato al giorno successivo; ma la prassi di vergare in bella calligrafia i suoi romanzi (è uno scrittore) alternandoli a cromatici paesaggi, e a altre figure rigorosamente infantili, è datata dal 1973, quando il bambino aveva poco più di vent’anni, e dopo avere immaginato di diventare da grande un pittore, si era già rassegnato a avviare un’altra carriera, quella che lo avrebbe portato, nel 2006, a vincere un Nobel per la letteratura. Adesso che è diventato famoso, quello scrittore tutt’ora bambino ha chiesto e ottenuto di riprodurre una scelta dei suoi deliziosi taccuini in un libro dello stesso formato, edito da Einaudi con il titolo Ricordi di montagne lontane (traduzione di Margherita Botto, pp. 385, € 34,00). Gli originali sono esposti – ça va sans dire – in un luogo delle meraviglie, il Labirinto della Masone, ideato da Franco Maria Ricci a Fontanellato, dove si trovano chiusi in teche illuminate (fino al 17 marzo 2024), che Pamuk ha ispezionato una per una con cuore palpitante il giorno dell’inaugurazione, quando lo abbiamo incontrato.
All’origine di questi suoi fantasmagorici quadernetti c’è, e non poteva essere altrimenti, un sogno: che Pamuk non racconta, le cui immagini al risveglio ha visto sfilare davanti ai suoi occhi già sul punto di svanire, e che andavano in qualche modo carpite e infilzate a mo’ di farfalle su una pagina, prima che si disfacessero. Le ha tradotte, quelle visioni notturne, perlopiù in disegni, perché non sono le parole – ha scritto – il tramite migliore per riportare una sequenza di immagini oniriche: Pamuk condivide quelle critiche a Freud che gli contestano la pretesa di tradurre con il solo linguaggio verbale la logica onirica: «Sì, la descrizione a parole dei sogni è sempre insufficiente – mi dice – le immagini li ricordano meglio. Freud raccomandava di avere un taccuino e una penna accanto al letto, in modo da poter trascrivere un sogno prima di dimenticarlo; ma la cosa non mi ha mai del tutto convinto. Non a caso, è molto difficile rendere interessanti i sogni in letteratura, mentre riesce benissimo alle arti figurative. Buñuel è stato, in questo, un maestro. Invece, non ricordo un solo scrittore che abbia prodotto una narrativa memorabile affidandosi alla descrizione di sogni. Il surrealismo direi che ha fallito l’intento: dall’attività onirica alcuni scrittori – Breton e Aragon, tra loro – hanno tratto qualche buona idea, ma nessun libro letterariamente valido. Henry James, che era consapevole del problema, non a caso ammoniva: “scrivi un sogno in un libro e perdi un lettore.” La pittura invece ci è riuscita egregiamente, a me per esempio le tele di De Chirico fanno un effetto così forte che le guardo e penso: “ma questa è la mia memoria!”».
Nei suoi taccuini lo scrittore turco ha annotato diffusamente un solo sogno, in cui gli appare la sua tomba ricoperta «di cera calda»: «Che fosse ancora calda… voleva dire che la mia morte era recente e che era appena stato apposto sulla mia tomba il sigillo che valutava-giudicava la mia esistenza. Apposto da DIO, ovvio. Mi sarebbe bastato alzare un po’ la testa e lo avrei visto, mentre si allontanava nell’aria sopra il nido d’aquila. Nell’istante in cui tentavo faticosamente di alzare la testa verso il cielo mi sono svegliato, atterrito».
Nel mondo concreto, due soli patemi sembrano, in realtà, affliggere Pamuk: la sciagurata politica interna di Erdogan, e – sul fronte privato – gli accidenti che arrestano, di volta in volta, la costruzione, a Istanbul, del Museo dell’Innocenza, ormai più famoso del suo autore, che lo immaginò e pian piano realizzò contemporaneamente alla stesura dell’omonimo romanzo. Destinato a immortalare l’amore dello sfortunato Kemal per la «affascinante e selvaggia» Füsun, che gli si era concessa quarantaquattro volte, poi era sparita e finalmente riapparsa sposata a un altro, il museo conserva tutti gli oggetti con cui la donna era entrata in contatto: forcine per i capelli, orecchini spaiati, mutandine, mozziconi di sigaretta, un cuore rotto di porcellana, gettoni del telefono, e così via, che Pamuk – autoconvocatosi nel romanzo a inventariare quei reperti – annota nei suoi quaderni di avere trovato nei mercatini dove lo portavano i suoi molti viaggi. Diviso tra ironia e profonda consapevolezza delle sue virtù romanzesche, Pamuk procede giorno dopo giorno nella stesura di appunti e disegni: «Il desiderio di dipingere è paragonabile al desiderio sessuale, mi lascia vivere la mia vita, con la mente e l’animo in pace, poi di colpo monta, mi monta dentro, e devo subito avventarmi sui pennelli, sui colori» – nota a margine del bellissimo schizzo di una scogliera, con un piroscafo, sull’estremo confine del mare.
Nel corso del tempo, scrive dai luoghi ai quali approda, per vacanza o per tournée di presentazione dei suoi libri: scrive da Goa, dove dedica le mattine alla stesura di La stranezza che ho nella testa, mentre la sera segue alla televisione le rivolte della Primavera araba; da Imrenler, dove visita i caffè per intervistare gli ex venditori di yogurt che da Istanbul, dove erano andati a cercare lavoro, sono tornati nei loro villaggi d’origine; dalla Avery di New York, che da quindici anni lo ospita mentre scrive i suoi romanzi; da Kas, sulla costa turca, dove si dedica a Le notti della peste guardando al largo l’isola greca di Kastellorizo, fonte di ispirazione per quella di Mingher, dove il romanzo si svolge. Eccetto le vicende private, solo telegraficamente menzionate, tutto della vita di Pamuk è capillarmente annotato nell’Indice dai suoi traduttori (francese e italiana) compreso l’acquisto del primo cellulare touchscreen, tappa evidentemente imperdibile di un autore la cui venerazione è immaginata (da lui per primo) come quella di una pop star (e forse lo è).
Commosse descrizioni dei paesaggi allargano gli orizzonti di questi quaderni stellari, dove la felicità di Pamuk sembra invadere la pagina come un’onda spumeggiante di sobri aggettivi: «Come amo i paesaggi di qui – scrive da Goa –. Le palme, le risaie, le case coloniali, i fiumi, le paludi, le mille botteghe, gli autobus, i venditori, i ponti, gli spazi verdi, i bracieri, le lunghe distese vuote delimitate da filari di palme. Dal finestrino abbassato della vettura guidata da Xavier divoro tutto con gli occhi, la vegetazione, le persone. Persino l’aria che entra nel veicolo mi riempie di un’enorme felicità». Tempo fa – gli ricordo – prese in prestito da Wolfgang Iser l’espressione di «lettore implicito» per dire come «ogni libro implichi il suo scrittore», e come dunque sia necessario adattare ogni volta la propria personalità alle esigenze del romanzo in fattura, virare il proprio carattere per sintonizzarlo con quella circostanza letteraria. Ma qui, dove i taccuini percorrono lo spazio di tanti anni e la stesura di tanti romanzi, che connotati ha l’autore implicito? «In effetti non lo so – ride Pamuk – perché questo non è tanto un libro da leggere quanto da vedere. E, tuttavia, se qualcuno mi dicesse che non conosceva nulla di mio, ma questo libro finalmente lo ha attratto ne sarei felice».
A tanta letizia non sono estranei, com’è ovvio, momenti di angoscia – «Pensieri cupi, idee nere. I ricordi si aggirano nel mio animo come squali», annota in una bella similitudine; e anche la paura di fallire a volte lo assale, di svegliarsi una mattina e scoprire che quanto aveva scritto non gli piace più (sì, ci sono mali peggiori, ma non per lui e per molti altri scrittori). Lo sconforto lo coglie durante uno dei suoi soggiorni indiani: «Si direbbe che ho perso la capacità di concentrazione – scrive – la bravura che avevo di restare immerso in apnea dentro un romanzo. Oggi, quindi, mi sono imposto la legge marziale. Vietato alzarmi dalla sedia, obbligo di scrivere una certa quantità di testo in un tempo assegnato, tutti metodi usati in passato. Ciò che rende felici è guardare la pagina vuota, i tuoi appunti, quello che hai già fatto, quello che ti costringerai a scrivere ancora, e scoprire che funziona davvero».
Gli domando, prima di incollarmi anch’io alle teche illuminate dove i colori dei suoi taccuini esercitano il fascino di un solipsistico gioco infantile, se gli sia più facile trarre materia per i suoi romanzi da questa sua strabordante felicità o dai momenti di tristezza: «portato all’estremo, nessuno dei due stati rende praticabile la scrittura. Forse la gioia mi rende più creativo e il dolore mi permette piuttosto di disegnare. Penso, comunque, che ci sia dell’esagerazione nel dire che la grande letteratura nasce dalla sofferenza. Può esserne il soggetto, certo, ma non l’origine: bisogna prendere distanza dal dolore prima di poterne scrivere, allontanare quei momenti e relegarli nel ricordo. Standoci dentro, scriverne è davvero troppo arduo».
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