«Non si deve smettere di lottare per un pianeta vivibile», afferma Oliver Ressler (Knittelfeld, Austria 1970, vive e lavora a Vienna) in occasione della personale Defending the Future, la sua terza mostra nello spazio di The Gallery Apart a Roma (fino al 24 febbraio 2024), realizzata in collaborazione con Forum Austriaco di Cultura. Tra arte e attivismo non c’è confine per l’artista austriaco vincitore dell’International Media Art Award dello ZKM di Karlsruhe e del Prix Thun for Art and Ethics Award 2016, autore anche di oltre 40 tra film e video che sono stati proiettati in migliaia di eventi e festival organizzati sia da movimenti sociali che in contesti istituzionali.

Già nel titolo della mostra «Defending the Future» è implicito il riferimento al fallimento dell’umanità ma anche alla speranza. Qual è il valore del tempo in rapporto all’arte come militanza?
Penso che stiamo vivendo tempi veramente speciali in cui assistiamo ad una molteplicità di crisi che si svolgono contemporaneamente. Crisi legate prevalentemente all’ecologia, all’estinzione di massa, al crollo del clima. Con la crisi della biodiversità è evidente come chi sta al potere prenda le sue decisioni che si riflettono su altre e giungono persino a contemplare la guerra. Eppure non si vede realmente che la loro agenda porti a decisioni a favore di soluzioni, come ad esempio il carbon free e la giustizia del clima, che sono il riflesso di una società più democratica. Penso che in una situazione tale dobbiamo alzarci in piedi e resistere perché non c’è alternativa. Parliamo del futuro come qualcosa che riguarda i nostri figli, le generazioni che verranno, gli esseri umani e la possibilità di continuare la vita sulla terra, questioni molto serie che non siamo autorizzati a lasciar cadere. Ecco perché da alcuni anni il mio lavoro è focalizzato su questi aspetti che credo di continuare a trattare anche più in là.

Ritratto dell’artista (foto di Manuela De Leonardis)

In particolare, quando è nata in te l’urgenza di affrontare questioni ecologiche e ambientali come artista-attivista?
Sin dai tempi in cui ero studente all’Università di Arti applicate a Vienna ho iniziato a collegare il mio lavoro con la coscienza politica. Ho sperimentato diversi materiali e continuo a farlo ancora oggi. Per affrontare queste tematiche provo ad inserire anche le voci di altre persone che ritengo importanti per mettere a fuoco argomenti che non sono necessariamente all’attenzione dei media. All’epoca in cui ero studente, comunque, il corso di studi era strutturato per masterclass. Un sistema in cui non mi sentivo a mio agio e fin dai primi lavori ho cercato di contestarne il suo cristallizzato orientamento sessista e patriarcale. Dopo un anno e mezzo, concluso il programma benché non fosse corrispondente al mio modo di vedere, con altri artisti abbiamo preso uno studio insieme dove ho cominciato a lavorare in maniera autonoma rispetto all’indirizzo istituzionale.

Anche il concetto di confine e l’idea del viaggio appartengono alla tua pratica artistica…
Viaggiare ha un’importanza cruciale nello sviluppo del mio lavoro. Ricordo, ad esempio, che per un caso fortuito ero a New York quando c’era la Whitney Biennale del 1993 che viene considerata da tutti una delle più importanti dal punto di vista politico. Il mio lavoro è cambiato dopo aver visto opere realizzate da artisti di colore, omosessuali impegnati nella lotta all’Aids e altri giovani che forse non sono diventati famosi ma che allora avevano grande forza. Prima avevo viaggiavo soprattutto in Europa. A Berlino c’era nGbK – neue Gesellschaft für bildende Kunst e a Zurigo un’altra organizzazione ed entrambe davano spazio soprattutto a gruppi di artisti attenti a tematiche politiche come la migrazione, le questioni ecologiche, l’urbanizzazione. Ero molto ispirato da questo modo di affrontare la politica attraverso l’arte. Esperienze del genere sono state molto più significative, per me, al livello formativo della frequentazione della scuola d’arte.

In mostra ci sono opere video che hai realizzato in diverse parti del mondo, dalla Germania all’Ecuador…
Alcuni viaggi li ho fatti per specifiche ragioni, in particolare più recentemente – dal momento che sono focalizzato sulle proteste e ogni forma di disobbedienza civile legata al climate breakdown e ai movimenti ambientali – sono stato invitato a lavorare in diversi paesi dove ho trovato un collegamento con la gente del posto impegnata nelle proteste. Sono anche curatore della collettiva Overground resistence che affronta la crisi climatica riunendo artisti-attivisti le cui opere sono in dialogo con i movimenti per la giustizia climatica. Dal 2021 questa mostra ha viaggiato da Vienna a Limassol (Cipro) e poi a Quito (Ecuador). Dal momento che il viaggio in Sudamerica era stato molto lungo, anche in termine di consumo di CO2, ho sentito una certa responsabilità nel previlegio di viaggiare e ho ritenuto opportuno non solo portare la mostra ma anche creare una connessione con i movimenti locali. Questo mi ha permesso di avere delle conversazioni molto interessanti di cui il video Ancestral Future Rising (2023) è il risultato. Sono per lo più contadini che difendono la loro terra dalla distruzione, combattendo con l’arte contro le concessioni minerarie. A Pacto, vicino a Quito, capitale dell’Ecuador, c’è una fortissima contraddizione. Da una parte la regione è stata designata dall’Unesco «Riserva della biosfera» per la sua foresta, dall’altra però l’estrazione dell’oro, dell’argento e del rame, sono letali perché avvelenano le risorse idriche.

Usi diverse tecniche – fotografia, video, disegno, installazione – come avviene il passaggio dall’idea all’opera?
Di solito il video o l’installazione multicanale nascono dopo ricerche approfondite e solo dopo aver trovato un punto di vista particolare su qualcosa che mi interessa. Scelgo con molta attenzione chi intervistare e il contesto. Tutto ciò viene deciso prima di iniziare il lavoro. Invece, è molto diverso il lavoro fotografico e il fotomontaggio perché spesso si basano su una singola idea che solitamente nasce da una lettura. Come puoi immaginare leggo molto, mi documento su argomenti come il cambiamento climatico e le forme di disobbedienza di massa e un po’ alla volta arrivo a trattate certi argomenti o terminologie e nella mia mente si sviluppa un’immagine che scrivo immediatamente. Non faccio schizzi, mi appunto solo quell’idea in due o tre frasi, solo in un secondo momento riguardando questo materiale sviluppo il lavoro.

Frasi, parole, slogan entrano nel tuo lavoro artistico, come vediamo in numerose opere fotografiche tra cui «Property Will Cost Us the Earth» (2021), «We are all learning about nature’s circulatory systems by poisoning them» (2021), «The desert lives» (2022), «More than half the world’s original forests have already disappeared» (2022), «We’re fossils in the making» (2022). La scrittura è un modo per rafforzare il concetto?
Sì. Penso che nell’opera sia molto importante usare anche la conoscenza degli attivisti per dargli la possibilità di spiegare le cose attraverso la loro esperienza. Nel mio lavoro di artista c’è anche la ricerca di un determinato metodo per condividere queste esperienze, mettendole insieme in una cornice di contesto perché possano essere viste e rese accessibili in un tempo specifico.