Oggi «el Diez» è argentino come il dulce de leche
Effetto «santo subito» Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e sognano d'essere inglesi, recita il detto. Danno del voi e non del lei, tracannano litri di un the chiamato mate e dicono cabagio e gagina invece di caballo e gallina come tutti. Oggi Diego è argentino e il mondo resta fuori, quel mondo conquistato a pedate a cui ha dato tutto e che tutto gli ha preso
Effetto «santo subito» Gli argentini sono italiani che parlano spagnolo e sognano d'essere inglesi, recita il detto. Danno del voi e non del lei, tracannano litri di un the chiamato mate e dicono cabagio e gagina invece di caballo e gallina come tutti. Oggi Diego è argentino e il mondo resta fuori, quel mondo conquistato a pedate a cui ha dato tutto e che tutto gli ha preso
Hanno cominciato di notte. All’alba c’erano venti isolati di coda per arrivare alla Casa Rosada, la sede del governo nel cuore di Buenos Aires che è la camera ardente del semidio chiamato Diego.
Le ordinate transenne e due giri di policia federal sono andate presto a remengo, coda all’italiana e chi c’è c’è, polizia preoccupatissima, gente che s’infila, tracima e percola fin dentro le sacre stanze del potere argentino parate a lutto.
In altri giorni sarebbe punita a sangue. Ma oggi no. Un effetto «santo subito» come quello che accompagnò Karol Wojtyla quando chiuse gli occhi per sempre e San Pietro divenne per giorni un’enorme, paziente sala d’attesa.
Tra i marmi e gli stucchi c’è la salma di Diego Armando Maradona avvolto nella bandiera argentina, appoggiate sul feretro la maglia della nazionale albiceleste e quella blu e gialla del Boca – niente Barcellona, niente Napoli, niente di niente, oggi el Diez è argentino come il dulce de leche, come l’asado col chimichurri, come le dannate Malvinas… Questo è il santo dell’argentinità.
GLI ARGENTINI SONO ITALIANI che parlano spagnolo e sognano d’essere inglesi, recita il detto. Danno del voi e non del lei, tracannano litri di un the chiamato mate e dicono cabagio e gagina invece di caballo e gallina come tutti. Oggi Diego è argentino e il mondo resta fuori, quel mondo conquistato a pedate a cui ha dato tutto e che tutto gli ha preso, consumandolo come una candela accesa da entrambe le parti dopo sessant’anni e pochi giorni.
Andando all’ospedale, doña Tota del barrio di Lanus – che sarebbe una città ma se l’è mangiata Buenos Aires – trovò per terra una stella che brillava da una parte ed era spenta dall’altra, plata y lata, argento e metallaccio.
Era il 1960, con la stella nel pugno partorì e lo chiamarono Diego Armando, raccontò Eduardo Galeano. A dieci anni entrò nelle Cebollitas, le Cipolline, gli juniores dell’Argentinos Junior, e a 21 anni dall’Argentinos al Boca.
La Boca è un barrio popolare e la squadra pure, è quella dei poveri, degli scuri di pelle, del proletariato urbano contro la borghesia alta che tifa River Plate. Poi il Barcelona, il Napoli e tutto il resto, ma sempre e comunque l’Argentina.
Era con l’argentino Jorge Valdano, calciatore e filosofo, che aveva provato a dar vita a un sindacato internazionale di calciatori, idea frustrata dalla Fifa che comporterà odio acerrimo e sempiterno contro il suo capo Joao Havelange.
La sua ultima partita vera è Argentina-Nigeria del 1994, il mondiale della resurrezione e della seconda morte per efedrina e conseguente squalifica-vendetta della Fifa. Chi ha meno di 25 anni non l’ha mai visto giocare in diretta. Eppure quanti giovani argentini nella ressa davanti alla camera ardente…
TRE GIORNI DI LUTTO NAZIONALE, decreta il presidente Alberto Fernandez, l’uomo di fiducia di Cristina Fernandez Kirchner e suo successore alla Casa Rosada recentemente riconquistata. Maradona quel palazzo lo conosceva bene. Ci era entrato trent’anni prima con Carlos Menem, il presidente coi basettoni che lo aveva nominato «ambasciatore dello sport» del suo governo, con tanto di passaporto diplomatico – utilissimo a evitare la dogana.
Passaporto che gli aveva personalmente consegnato in Italia, a San Siro, poco prima di una partita. Diego lo aveva fatto aspettare fuori dagli spogliatoi e Menem buono buono aveva atteso – se presiedi un bordello come l’Argentina hai più bisogno di Maradona di quanto lui ne abbia di te.
E pensare che quell’idiota supponente di Jorge Luis Borges aveva convocato una conferenza stampa (sull’immortalità, immagina un po’) nello stesso giorno ora e minuto della partita d’esordio dell’Argentina ai Mondiali del ’78 – che si giocavano in Argentina – e poveracci i cronisti comandati a coprire l’immortale scrittore, «il calcio è popolare perché la stupidità e popolare» disse, maledetto lui. Vero che quel Mundial era la celebrazione del regime di Videla, e che Diego venne lasciato a casa da un allenatore stolto, epperò.
MARADONA ERA «ZURDO» cioè il mancino, il sinistro, quello che fa le cose al contrario degli altri. Era tutto e integralmente zurdo, a partire dai piedi fatati fino al più piccolo assone dell’emisfero cerebrale sinistro, quello che controlla il modo di esprimersi (in questo caso “controlla” è un eufemismo).
E come zurdo contra la pelota y el imperialismo lo ha salutato il Partito comunista cileno – come se il Pc francese celebrasse Baggio…
TeleSur ha piazzato le sue telecamere e aperto il microfono davanti alla Casa Rosada. Il canale satellitare ideato dal Venezuela bolivariano di Hugo Chavez pensava di cavarsela con qualche collegamento. Dopo dodici ore erano ancora in diretta e il reporter mandava messaggi sempre più preoccupati per quel muro di gente che lo imprigionava da ogni lato.
Dio è morto, e non lo fa tutti i giorni.
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