La morte di Oe Kenzaburo priva il Giappone di uno dei suoi scrittori di maggiore potenza creativa ma anche di uno dei suoi antagonisti più irriducibili. Il suo antagonismo non era rivolto al Paese in sé ma ai suoi governi, al sistema imperiale, e al conformismo che ne condizionava la vita sociale e politica. L’aggettivo che oggi e nei prossimi giorni ricorrerà più spesso a proposito di Oe è «scomodo». Ma quanto Oe è stato scomodo, quanto davvero ha costituito una minaccia per il Giappone? In realtà, a differenza di uomini e donne di una o due generazioni precedenti alla sua, che per la loro opposizione al regime sono stati perseguitati, imprigionati, giustiziati, Oe, pur avendo subito in certi periodi violenti attacchi, soprattutto da militanti di estrema destra, ha sempre goduto del rispetto dovuto a un protagonista della cultura del Paese.

NATO NEL 1935, alla fine della guerra aveva appena dieci anni, e ha avuto modo di crescere in un Giappone che l’occupazione americana aveva dotato di una costituzione democratica e (forzatamente) pacifista. Il suo debutto, nel 1957, con un racconto aspro e sgradevole, «L’orgoglio dei morti», fu accolto con favore e l’anno successivo un altro, «L’animale d’allevamento», fu insignito del Premio Akutagawa.

Con questa consacrazione Oe, poco più che ventenne, entrava nel bundan, il mondo letterario giapponese, con tutti gli onori. Il suo stile complesso, che sfidava le convenzioni, rappresentava certo una provocazione nei confronti dell’establishment, ma allo stesso tempo egli era in sintonia con un movimento di protesta che vedeva in prima linea intellettuali, letterati, studenti, e che dalla fine degli anni Cinquanta è proseguito fino agli anni Settanta, con obiettivi e modalità diverse. Oe era dentro e fuori questi movimenti perché non necessariamente le sue idee coincidevano con quelle degli altri, ma si è sempre mantenuto aperto alla collaborazione, anche con interlocutori stranieri come Günter Grass e Susan Sontag. Era uno dei pochi intellettuali della sua generazione che avesse la capacità di dialogare su un piano internazionale.

OGGETTO DEL SUO DISSENSO era soprattutto una società acquiescente che non aveva, dopo la fine della guerra, compiuto nessun vero processo di autocritica nei confronti del recente passato nazionalista del Giappone e dei suoi sanguinosi progetti di sopraffazione e conquista. Per esprimere l’atteggiamento che il Giappone aveva adottato dopo la fine della guerra e poi sistematicamente mantenuto, aveva scelto come parole chiave del discorso da lui pronunciato in occasione della consegna del Premio Nobel nel 1994, «ambiguo» e «ambiguità», termini che contrappone polemicamente a «bello», «bellezza» usati dall’unico scrittore giapponese che prima di lui era salito sul podio svedese, Kawabata Yasunari. Oe modella il titolo del proprio discorso su quello di Kawabata con un calco che non ha il sapore di un omaggio bensì di una presa di distanza da ciò che il suo predecessore aveva voluto rappresentare in quella occasione, e cioè una cultura giapponese rarefatta, estetizzante, mistica. Si tratta di una tradizione che a Oe non interessava, non per disprezzo ma perché riteneva infinitamente più urgenti altri temi quali una chiara scelta pacifista e antinucleare del Giappone, e un’assunzione di responsabilità nei confronti dei dolori e delle sofferenze accumulate dal suo paese, ma anche dall’umanità in generale, nel corso del ventesimo secolo.

Già nel racconto di esordio a cui accennavo, «L’orgoglio dei morti», dietro la superficie fredda e respingente della scrittura, filtra un senso di pietà nei confronti delle vittime della Storia ma anche degli implacabili ingranaggi della vita quotidiana.

PROTAGONISTA è un giovane studente di letteratura il cui lavoro part-time consiste nel trattare cadaveri immersi in una piscina colma di liquido conservante. Sebbene tutto congiuri per privare i corpi, ammassati in vasche, dalla pelle marrone e dal sesso quasi indistinguibile, di ogni identità, il giovane percepisce tracce della loro vita passata e immagina di dialogare con loro.

Un manoscritto di Oe Kenzaburo

ANCORA PIÙ ESTREMO un racconto del 1961, «Seventeen», ritratto impietoso di un giovane neofascista dedito alla masturbazione e al culto dell’imperatore, che provocò un’ondata di indignazione in un Paese in cui l’origine divina del sovrano era stata sconfessata solo da pochi anni.

Se Oe fin dal suo esordio aveva occupato con autorevolezza la scena letteraria, si afferma definitivamente come scrittore di primo piano solo nel 1964, con il romanzo Un’esperienza personale. Segnato, l’anno precedente, dalla nascita di un figlio affetto da una grave disabilità mentale, Oe produce per la prima volta un’opera dolorosamente autobiografica, paragonabile, pur nella diversità dei temi, a Confessioni di una maschera di Mishima Yukio per la capacità di spietata autoanalisi. È difficile esagerare l’importanza della nascita di suo figlio per Oe. Questo evento fa da spartiacque nella sua vita e nella sua carriera. Il rapporto con Hikari che, pur senza superare mai il proprio handicap, da adulto si affermerà come musicista, ha su Oe un’influenza determinante.

A partire da Un’esperienza personale, le sue opere escono da qualsiasi schema e acquisiscono una ricchezza stilistica e una potenza metaforica inusitate. Un grido silenzioso, considerato uno dei suoi capolavori, riconnette Oe con le sue radici, piantate solidamente in un villaggio rurale dello Shikoku, al quale verrà riportato più volte nel corso della sua produzione come da una corrente irresistibile.

IL CONTRASTO PROVINCIA-CITTÀ, tema presente in molta letteratura giapponese del secolo scorso, non si identifica in lui, come per molti altri scrittori, nel binomio innocenza-corruzione, perché il mondo delle campagne e delle foreste del suo paese d’origine non è un luogo idealizzato quale fonte di ancestrale purezza, ma un laboratorio in cui la realtà prende forma in una varietà di manifestazioni, e in cui il candore infantile sfuma non di rado in crudeltà.

L’ispirazione, come la coscienza morale e politica, non ha mai abbandonato Oe, che fino a pochi anni fa ha continuato a produrre saggi e romanzi. A volte accade che la morte di uno scrittore spinga il pubblico a riscoprire le sue opere, e io mi auguro che questo accada per Oe. Oggi che la letteratura giapponese gode in Italia di una popolarità senza precedenti, suscita una certa malinconia il fatto che questo scrittore, uno tra i più grandi, sia poco seguito dai lettori. Certo, le sue opere appaiono controcorrente rispetto ai filoni principali oggi di moda, quelli consolatori e rassicuranti ambientati in caffè o popolati da gatti, o quelli di intrattenimento come i gialli di Kirino Natsuo e Higashino Keigo. Oe è lontano anche da quegli scrittori che hanno rotto il muro che separava la letteratura «alta» dalla «bassa» coma Murakami Haruki e Yoshimoto Banana. Ma proprio nella sua solitudine e nel suo assoluto rigore, coniugati con una immaginazione fervida e visionaria, sta la cifra di un autore da scoprire, rileggere e non lasciare mai più.