Odessa, all’inizio Chadzibej, piccolo villaggio tataro, poi città di Puskin del primo Ottocento, elegante e neoclassica ma anche novecentesca del ghetto di Moldavanka, raccontata da Isaak Babel con il mitico bandito gentiluomo Mishka Japoncik alias Benia Crik e gli ebrei odessiti che, dopo New York e Varsavia, costituivano la terza comunità ebraica del mondo. Melting pot balcanico con russi, ucraini, greci, italiani, tedeschi, francesi che convivevano sì, ma forse non in modo così mitico, perla nera attraverso la quale transitano da sempre – ma non adesso – i carichi di cereali destinati all’Europa e al sud del mondo.
Infine Odessa di oggi, sotto le bombe russe, non lontana dai teatri di guerra e distruzione di Mykolaïv, Cherson e Melitopol e tappa forzata per tutti coloro che – dal Donbass in particolare – cercano rifugio dalla guerra, ad ovest, in Moldavia e in Romania. Qui, nel cuore della città e come collegamento fra mare e terra, nacque, a metà Ottocento, la famosa scalinata dai duecento gradini: Ejzenštejn la renderà immortale nel 1925 e da allora si chiamerà Potëmkin. È a lei che il Museo Man di Nuoro dedica una bella mostra, indagandone origini, fortuna architettonica e cinematografica (Odessa steps. La Scalinata Potëmkin fra cinema e architettura, a cura di Giovanni Francesco Tuzzolino e Federico Crimi, fino al 25 giugno), in una sinergia preziosa e significativa, proprio per il tempo che la vede inaugurare, in cui hanno lavorato l’Università politecnica nazionale di Leopoli e l’Archivio dello stato della regione di Odessa. Autore della scalinata fu Francesco Boffo (1796-1867), da sempre ritenuto sardo ma rivelatosi, in seguito a recenti ricerche d’archivio, ticinese. Studia a Torino ma ben presto si trova catapultato in un mondo totalmente estraneo.

Per dare infatti impulso ai rapporti commerciali fra Mar Mediterraneo e Mar Nero, in piena Restaurazione, nel 1816 si inaugurava ad Odessa, sul Mar Nero, una sede consolare del Regno di Sardegna. Tre anni dopo Boffo è lì e in breve tempo si trova a capo dell’Ufficio urbanistico. Ha davanti a sé una città in cui il governatore francese Armand du Plessis, Duca di Richelieu, nel 1809 ha fatto disegnare da un suo conterraneo il Teatro dell’Opera: il linguaggio classico che connota l’edificio viene adottato dal governatore successivo, Louis de Langeron che inserisce Boffo nell’amministrazione edilizia della città. Il grande sodalizio però si crea con il conte russo Michail Semenovic Voroncov. Ritratto da Tolstoj in Chadzi Murat, Voroncov si era fatto costruire ad Alupka, in Crimea del sud, un magnifico castello (residenza di Churchill nei giorni di Yalta) tutto azzurrino e cammei bianchi, sulla scia degli ambienti concepiti per Caterina II a Tsarskoe Selo dallo scozzese – neoclassicissimo – Charles Cameron.

Ecco che tout se tient: gli echi di Quarenghi da San Pietroburgo saldano il legame fra Boffo e Voroncov che, principalmente, chiede per sé una dimora che si rispetti lungo uno degli assi principali di Odessa. Boffo, che ha già all’attivo importanti progetti come la Borsa di Commercio e palazzo Potocki (dai connotati palladiani), concepisce, fra le altre cose per il palazzo, un grande colonnato, ancora oggi amatissimo dagli odessiti.

La richiesta del mecenate è poi quella di una scalinata gigante da regalare alla moglie (Elizaveta, nel frattempo amante di Puskin). Ottocentomila rubli, duecento scalini che si dividono in dieci salite inframezzate da larghi piani sui quali poter sostare, passeggiare e chiacchierare: il tutto salendo fino al grande slargo con al centro il busto di Richelieu oppure scendendo – letteralmente– fino in mare. E se poi giunti al mare ci si volta indietro immediatamente si coglie, nella forte rastremazione della scala verso l’alto, una eco di Roma barocca e delle sue geniali invenzioni.

I documenti in mostra sono molti ed interessanti, dai numerosi progetti di Carlo Boffo provenienti dall’Archivio di stato di Odessa alle piante ottocentesche della città a due commoventi ex-voto: un brigantino sardo arenato fra i ghiacci del delta del Danubio con l’equipaggio costretto a proseguire a piedi. Infine due belle marine ad olio di fine Ottocento: una, del 1897, dal Museo nazionale di Varsavia, del grande pittore russo Ivan Konstantinovic Ajvazovskij.

Un magnifico e grande modello ligneo della scalinata nonché i disegni delle sezioni (entrambi a cura dell’Università di Palermo) rendono visivamente quale e quanta fosse l’importanza di questo rettilineo, di questa linea tesa che, inserita nel tessuto urbanistico della città, andava dritta al mare e nel mare. Fu quel movimento semplice e deciso ma molto forte, che vide Ejzenštejn osservando i cittadini muoversi, percorrerla, fermarsi a chiacchierare: era la scenografia perfetta per quel momento iconico de La corazzata Potëmkin in cui il popolo odessita prima, felice, saluta in festa i marinai plaudendo al loro ammutinamento e poco dopo non si accorge che i militari zaristi, coi fucili spianati avanzano dietro di loro dalla sommità della scala (e Ejzenštejn ha in mente El tres de mayo de 1808 di Goya).

Allineati i corpi, i fucili, gli stivali e le teste dei militari mentre la folla inciampa, cade, rotola lungo i gradini – la famosa carrozzina inizia a scendere all’indietro proprio sotto il peso della madre che, ferita, ci cade sopra – mentre un ragazzino viene calpestato dalla folla ed una sciabola infrange gli occhiali di una donna anziana.

La sala conclusiva della mostra è quella nella quale ci si siede a rivedere il film stesso con quel montaggio che, come disse lo stesso Ejzenštejn «ara la psiche dello spettatore», insieme agli spezzoni di opere che, negli anni, hanno reso omaggio alle scene famose, da Gli Intoccabili (Brian de Palma, 1987) all’ultraconosciuto Secondo tragico Fantozzi (Luciano Salce, 1976) a Partner (Bernardo Bertolucci, 1968) in cui Pierre Clementi e la sua allieva lanciano una bomba nella carrozzina che rotola giù lungo la scalinata all’Eur, lasciando nell’aria una scia rosa.