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Occupazione è violenza

Occupazione è violenzaI funerali di Yamen, 16enne palestinese ucciso da un cecchino, a Abu Dis – Immagini tratte dal documentario "Terra Promessa". Sopra,

Terra Promessa Polveriera Cisgiordania. Dove la minaccia più grave alla sicurezza di Israele non è la rabbia dei giovani palestinesi ma l’espansione stessa delle colonie. Parola degli ex soldati "pentiti". Un'anticipazione del documentario in onda domani sera su Raitre

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

Fuori dal finestrino dell’auto scorrono strade deserte e negozi chiusi. Stiamo attraversando Abu Dis, un villaggio palestinese in Cisgiordania non lontano da Gerusalemme est, quando vediamo muoversi dei cassoni della spazzatura. Un gruppo di ragazzi, con il volto coperto, stanno bloccando la strada. Ci fermiamo a parlare con uno di loro, guardandolo attraverso i buchi del passamontagna. Ci chiede di filmare solo le sue mani che stringono dei sassi.

«HANNO UCCISO UN NOSTRO AMICO – spiega il ragazzo -. Yamen aveva 16 anni. Camminava tranquillo nella sua città e dei cecchini gli hanno sparato in testa. L’hanno lasciato in terra per oltre due ore senza far avvicinare l’ambulanza e ancora non ci hanno restituito il corpo». «Se l’esercito uccide uno di noi e non ci ridanno la salma, – aggiunge un altro ragazzo – noi ci indigniamo. Devono considerarci!. Lassù c’è l’esercito israeliano, stiamo lanciando pietre e tra poco ci caricheranno, state attenti!».

Si sentono degli spari: i ragazzi corrono giù dalla strada su cui rotolano bombole di lacrimogeni. La dinamica si ripete per tutto il pomeriggio: un sasso contro un mezzo militare, spari, lacrimogeni.

Yamen è il sesto palestinese ucciso in dieci giorni da soldati israeliani. Secondo l’esercito sarebbe stato colpito durante un’«operazione pre-programmata» nella città palestinese di Abu Dis, perché lanciava bombe incendiarie contro una postazione militare che sorveglia il muro di otto metri che separa il villaggio dalla Città Santa.
«Mio papà mi diceva che prima del 2000 si poteva andare ad Al Qods (Gerusalemme, ndr) tranquillamente – racconta il ragazzo coprendosi il volto dal fumo urticante -. Adesso, no. Sono nato qua e non conosco Gerusalemme! Non ci posso andare! Perché? Che colpa ho?”

«DA QUANDO È INIZIATA l’occupazione nel 1967, i palestinesi non possono andare nelle città occupate e viceversa, quindi qualsiasi giovane palestinese sotto i 50 anni non conosce gli ebrei» – spiega Jeff Halper, attivista politico ebreo -. Gli unici ebrei che hanno mai visto sono o i coloni, che li attaccano, o i soldati, che pure li aggrediscono, quindi è ovvio che possano odiarci». Jeff Halper è un israeliano di origini americane, co-fondatore del Comitato israeliano contro le demolizioni delle case palestinesi. Nel 2006, venne nominato al Nobel per la Pace insieme a Ghassan Andoni, intellettuale palestinese. «Vorremmo far sapere ai palestinesi – prosegue – che ci sono ebrei contro l’occupazione che denunciano questo sistema di Apartheid. Ormai Israele ha occupato l’intero paese e la popolazione palestinese è confinata in piccole enclave, nel 15% del territorio».

UNA SITUAZIONE ESPLOSIVA. Secondo la Commissione d’inchiesta internazionale delle Nazioni unite sui territori palestinesi, è chiaro che «per interrompere i ricorrenti cicli di violenza è necessario porre fine all’occupazione», che è una delle «cause principali del protrarsi del conflitto nella regione e del crescente risentimento tra il popolo palestinese».

Sempre l’Onu denuncia che nei primi sei mesi del 2022 le forze di sicurezza israeliane hanno ucciso 60 palestinesi in Cisgiordania e a Gerusalemme est, quasi il doppio rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Tra questi morti, ci sono anche i responsabili degli attentati compiuti in Israele tra marzo e maggio che hanno causato 18 vittime.

«È più importante che mai aiutare le persone a comprendere i pericoli dell’occupazione» dice Avner Gvaryahu, ex sergente di una squadra di cecchini e membro di “Breaking the silence”, una ong di soldati israeliani che hanno servito nell’esercito nei territori occupati, partecipando ad azioni militari che li hanno segnati profondamente. «Per questo – aggiunge – organizziamo dei tour, alternativi ai percorsi turistici, nei luoghi dove abbiamo prestato servizio. Oggi portiamo degli studenti ebrei degli Stati uniti nei Territori occupati a vedere con i loro occhi cosa significa l’occupazione per i bambini e le famiglie palestinesi. Anche le persone che sono nate e cresciute qui, non sanno davvero di cosa si tratti».

 

AVNER PARLA AI RAGAZZI seduti nel bus: «Quello che ho fatto durante le nostre missioni mi spinge a rompere il silenzio. Irrompevamo nelle case nel cuore della notte, ammanettavamo e bendavamo il capofamiglia senza che fosse indicato come pericoloso. Inizi a capire cosa stai facendo loro, mentre li guardi negli occhi: vedi rabbia, odio e paura. Bambini che si sono fatti la pipì addosso solo vedendomi. Cosa ci stiamo lasciando dietro? L’occupazione non è una questione di sicurezza, è una questione di controllo».

Uno dei ragazzi replica: «Ma quelli che chiedono la fine dell’occupazione, vogliono anche lo smantellamento dello Stato di Israele. Non capiscono che è fatto in funzione difensiva». Avner risponde: «Al contrario, anche tra i più alti gradi dell’esercito e dell’agenzia di intelligence dello Shin bet, si sa che gli insediamenti sono una minaccia per la sicurezza di Israele. L’espansione delle colonie è un atto politico il cui obiettivo è impedire la costruzione di uno Stato palestinese al nostro fianco. Questa strategia non potrà durare».

IL GIORNO DOPO torniamo ad Abu Dis: è arrivato il corpo di Yameni, si può fare il funerale. Un fiume di persone in corteo si muove verso il cimitero. La bara viene sepolta e intorno restano gli amici: tanti ragazzi giovani. Nel silenzio coprono la tomba con la bandiera palestinese e la fermano con delle pietre, restando là a guardare ed accarezzare la terra.

«Dopo molti anni di servizio posso dire che l’occupazione non riguarda la sicurezza di Israele, ma il controllo dell’intera popolazione civile palestinese», spiega un altro ex soldato, Benzion Sanders, parlando sul pulman agli studenti ebrei- americani del tour.

«ANCHE IO SONO AMERICANO – racconta -, nato a New York. A 18 anni ho fatto Aliyah, cioè ho chiesto la cittadinanza israeliana. Sono cresciuto in una famiglia religiosa ortodossa dove il giudaismo e il sionismo facevano parte della mia vita. Consideravo un onore fare il servizio militare e difendere Israele dopo secoli di persecuzioni dei miei antenati. Mi sono arruolato in un’unità delle forze speciali di fanteria chiamata Pulsar Nahal e ho trascorso otto mesi in Cisgiordania. Durante questo periodo ho iniziato a capire che quello che pensavo di fare come soldato, cioè difendere Israele dal terrorismo, e quello che in realtà stavo facendo ogni giorno, cioè impedire a civili palestinesi di avere una vita e relegarli in certe zone, erano due cose molto diverse. Mantenere un controllo militare indiscriminato su tutta una popolazione civile e l’espansione delle colonie, sono attualmente le più grandi minacce allo stato di Israele».

  • Chiara Avesani gira e produce documentari per la Rai. Nel 2019, con Matteo Delbò, ha vinto il World Press Photo con il corto Ghadeer sulla ricostruzione della società civile irachena nel dopoguerra. Nel 2022, sempre con Matteo Delbò, ha conseguito la Ninfa d’Oro al Festival di Montecarlo con Erasmus a Gaza. In coppia firmano anche la regia di Terra Promessa, in onda domani sera su Rai3 alle 23.15. Il reportage da Palestina e Israele, parte del programma Il Fattore Umano, sarà poi visibile su Raiplay nella sua versione completa. Il Fattore Umano è una serie in otto puntate che hanno come tema i diritti umani.

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