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Occhio all’aborto

Occhio all’abortoOdessa, Texas: marcia verso la sede del Comune a sostegno del diritto all’aborto e alla salute riproduttiva – Ap/Eli Hartman

Stati Uniti Ricerche sul web, localizzazione, stato di salute: nel «selvaggio West» della sorveglianza digitale, le piattaforme potrebbero cedere i dati delle donne agli Stati Usa in cui abortire è vietato. Mentre censurano post e gruppi pro-choice, in lista nera insieme ai neonazisti

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 14 luglio 2022

«Proteggete i vostri device digitali. Non consegnate alle forze dell’ordine il vostro computer, o il telefono, senza un mandato». Questo è solo uno dei consigli che compone il decalogo stilato da un giornale moderato come il Washington Post per le donne che intendono abortire dopo la cancellazione di Roe v. Wade, intitolato Ecco come evitare di lasciare una traccia digitale.

IL TONO e il senso di allarme è evidente: all’indomani della sentenza che rimette agli Stati il potere di legiferare sull’aborto – con la metà circa degli Usa che lo metterà fuorilegge o lo ha già fatto – uno dei pericoli principali per le donne viene da quello che Jennifer Brody dell’organizzazione per i diritti digitali Access Now definisce il «selvaggio West» della sorveglianza digitale.

«Con la fine di Roe i capitalisti della sorveglianza sono nella posizione di trasformare in arma l’accesso all’assistenza sanitaria riproduttiva». «Viviamo in un mondo – continua – in cui la maggioranza delle cose che facciamo viene tracciata. Le nostre ricerche su internet, la nostra localizzazione, perfino dati sulla nostra salute come il battito cardiaco». Dati sensibili che ora le forze dell’ordine e le procure possono richiedere per la persecuzione di chi viola il divieto all’aborto.

E il passo dalle cliniche abortive alle donne che interrompono la gravidanza rischia di essere molto breve: chi si sposta in uno Stato dove l’Ivg è legale per abortire ora deve temere non solo i costi proibitivi ma la traccia digitale che è molto difficile non lasciare dietro di sé.

«Le compagnie che si servono di questi dati che hanno il potenziale per essere usati come prove in processi penali potrebbero semplicemente non raccoglierli. Non ci sono regole per cui debbano possederli», osserva Daly Barnett, analista della Electronic Frontier Foundation. Ma come fare in modo che rinuncino alla loro principale fonte di profitto?

«NEGLI STATI UNITI – spiega Brody – manca una legge federale sulla protezione dei dati personali». Una legge al vaglio del Congresso, My Body My Data, vuole mettere al riparo le informazioni sensibili sulla salute riproduttiva femminile. Ma se qualunque regolamento sulla protezione dei dati viene associato ai diritti riproduttivi è praticamente certo che i repubblicani lo affosseranno.

In questo selvaggio West normativo, i potenti avversari sono i soliti: i giganti della Silicon Valley come Google, Meta, Twitter. Ma anche, dice Brody, «l’industria dei data broker, attori invisibili di cui spesso non conosciamo neanche il nome e che traggono profitto dalla condivisione delle informazioni personali. Che poi sono tra le compagnie che oggi si stanno offrendo di aiutare le loro dipendenti negli Stati dove l’aborto è vietato, ma che contemporaneamente vendono e raccolgono dati sensibili sulla salute riproduttiva delle persone che potrebbero venire usati contro di loro».

INTERPELLATI dalla Mit Review of Technology, Facebook, Google & co. rifiutano di commentare su come intendono rispondere ai mandati delle procure per casi relativi all’aborto.

«Non mi sorprende – commenta Barnett – È notorio come quasi tutte queste compagnie siano incredibilmente opache in merito alle richieste delle forze dell’ordine». Nel 2021, il solo social network Reddit ha ricevuto 1.100 mandati. E ha ottemperato alla richiesta delle forze dell’ordine nel 60% dei casi.

Subito dopo lo scoop di Politico di maggio che anticipava la decisione della Corte suprema, alcuni deputati della Camera Usa – tra cui Alexandria Ocasio Cortez, Rashida Tlaib e Cory Booker – si sono rivolti a Google affinché smettesse di raccogliere e conservare dati sulla geolocalizzazione delle persone, «un’arma – scrivono – per gli estremisti di estrema destra desiderosi di reprimere» la salute riproduttiva.

La compagnia si è impegnata a cancellare queste informazioni, ma si tratta solo di una goccia in un mare di dati. E soprattutto, come nota Brody, non è che una promessa: «Mancano i meccanismi che consentano il controllo del rispetto delle norme. Per un semplice motivo: queste compagnie hanno troppo potere perché possano essere obbligate a rendere conto del proprio operato. C’è una sola soluzione: smantellare il monopolio tech negli Stati uniti. Anche quando Facebook è stata disertata dagli inserzionisti (durante lo scandalo dei Facebook Papers, ndr), quando la polemica si è placata, pochi mesi dopo, quegli stessi inserzionisti sono tornati. Non c’è abbastanza competizione, è un modello di business distruttivo».

PROPRIO FACEBOOK e Instagram illustrano perfettamente un’altra minaccia digitale legata alla cancellazione di Roe: la censura. Nello stesso giorno della sentenza della Corte, sulle piattaforme hanno cominciato a sparire i post sulle pillole abortive.

Un’indagine di Vice ha mostrato che i contenuti sull’argomento venivano segnalati o rimossi nel giro di pochi minuti. Mentre Intercept ha rivelato l’esistenza di un memo riservato fatto circolare tra i dipendenti di Facebook in cui si inseriva il gruppo pro-choice Jane’s Revenge – reo di alcuni atti vandalici senza vittime contro strutture che ospitano associazioni antiabortiste – nella lista dei «Dangerous individuals and organizations»: praticamente nel primo livello della lista nera della piattaforma, dove si trovano neonazisti, organizzazioni terroristiche e cartelli della droga. Gruppi terroristici interni come gli Oath Keepers sono al livello 3, molto meno penalizzato.

«L’IPOCRISIA è alle stelle – dice Brody – I post sulla vendita di armi o droga, attività teoricamente illegali, vengono censurati con molto meno zelo».

Eppure, come spiega Barnett, «ci sono leggi che proteggono la libertà di parola sulle piattaforme, in particolare la Section 230 (del Communications Decency Act, ndr) che fa loro scudo da ogni responsabilità penale per i contenuti postati al loro interno. Ma spesso queste compagnie implementano politiche molto più stringenti e conservatrici, non a causa di questioni legali ma di standard decisi arbitrariamente, che riflettono i bias sociali in continuo cambiamento e spesso di natura conservatrice».

LA NARRATIVA CREATA negli anni dalla e sulla Silicon Valley come luogo del «capitalismo progressista» si ribalta nel suo contrario nell’operato di compagnie che nel caso dell’aborto si allineano per l’ennesima volta con le forze più reazionarie della nazione.

«È una tendenza molto comune – aggiunge Barnett – che alcuni gruppi d’odio abbiano un trattamento di favore sulle piattaforme come Facebook, mentre gruppi di attivisti che semplicemente si battono per dei diritti vengono censurati». Una censura che dopo la fine di Roe non limita solo la libertà di espressione, ma la possibilità delle donne di cercare informazioni sulla loro salute riproduttiva.

Per loro, negli Stati uniti, il pericolo non viene solamente dalle procure e le forze dell’ordine statali ma dallo stesso attivismo di vigilantes antiabortisti, che da decenni picchettano davanti alle cliniche, fanno foto di staff sanitario e pazienti e registrano i loro numeri di targa.

Un attivismo che combinato con le tecnologie di riconoscimento facciale e le leggi antiabortiste implementate in stati come Texas e Oklahoma, che incoraggiano i privati cittadini a farsi «cacciatori di taglie», potrebbe avere un effetto paralizzante anche sulle cliniche che operano in Stati dove l’aborto è consentito.

«È assolutamente un rischio – dice Barnett – L’effetto paralizzante che la sorveglianza di qualunque tipo ha sulla popolazione è ben documentato. Quindi non credo faccia differenza se quella sorveglianza è esercitata dallo Stato o da privati cittadini, cambia solo il suo livello di sofisticatezza».

IN ASSENZA DI LEGGI sulla protezione dei dati, sembra quasi non resti che affidarsi alla «buona volontà» delle stesse compagnie tech fautrici della sorveglianza distopica che caratterizza quest’epoca (come nota Brody, in quella precedente a Roe v. Wade, del 1973, «almeno non vivevamo dentro il Grande Fratello»).

Un segnale positivo in questo senso viene da una delle principali app di tracciamento del ciclo mestruale, Flo, che come riporta il Wall Street Journal presto rilascerà una funzione, Anonymous Mode, che consentirà alle utenti di rimuovere le proprie informazioni personali.

«È un esempio di come le compagnie digitali dovrebbero reagire. Non sono neanche meccanismi difficili da implementare», osserva Barnett. Ma c’è un problema: «Il più delle volte va contro la loro fonte di reddito: il loro margine di profitto è rappresentato proprio dall’essere in grado di identificare e tracciare gli utenti».

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