Obbligo vaccinale, lo scudo della Corte costituzionale
Scelte del legislatore «né irragionevoli né sproporzionate». Ma la Consulta non decide sui lavoratori sospesi anche quando esercitano online. «Inammissibile», forse per difetto di giurisdizione, la causa più delicata, quella di una psicologa a Milano
Scelte del legislatore «né irragionevoli né sproporzionate». Ma la Consulta non decide sui lavoratori sospesi anche quando esercitano online. «Inammissibile», forse per difetto di giurisdizione, la causa più delicata, quella di una psicologa a Milano
La Corte costituzionale alza un muro a difesa dell’obbligo vaccinale. Non concede nulla alle otto ordinanze che avevano sollevato differenti casi di lavoratori della sanità o della scuola rimasti senza stipendio, né assegni alimentari, perché non hanno completato il ciclo vaccinale contro il Covid-19. Sbarra la strada anche al caso proposto dal Tar della Lombardia che riguarda una psicologa che lavora solo online. Anche lei, senza vaccino, è stata sospesa dal suo ordine professionale e dunque dalla possibilità di lavorare, malgrado non abbia contatti con i pazienti e non possa diffondere il virus. Una causa che nell’udienza di mercoledì scorso la Corte ha trattato singolarmente, mentre tutte le altre sette sono state discusse assieme, alimentando così le aspettative sulla possibile accoglienza, almeno in parte, degli argomenti del giudice rimettente. Questo, che era il caso più delicato, i giudici hanno scelto di non trattarlo nel merito. Valutando la «inammissibilità per ragioni processuali».
Comincia da qui il comunicato stampa diffuso ieri sera poco prima delle otto, al termine di una lunga camera di consiglio che ha preso parte del pomeriggio di mercoledì e tutta la giornata di ieri. Segno che si è trattato d una decisione difficile, parecchio dibattuta tra i quindici giudici. Nulla è pubblico di quel dibattito ma non sono inverosimili le voci che parlano di un collegio spaccato. Collegio del quale ha fatto parte, ma questo si è chiarito già mercoledì, anche il giudice Marco D’Alberti, la cui incompatibilità è stata sollevata persino in udienza. Era stato in precedenza proprio D’Alberti a parlarne al resto del collegio, spiegando che malgrado sia stato sino a due mesi fa consigliere giuridico del presidente del Consiglio Draghi, non aveva avuto parte nella redazione dei due decreti leggi di cui si discuteva la legittimità. La Corte, come ha chiarito la presidente Silvana Sciarra in udienza, ha valutato che non esistevano motivi di incompatibilità.
Il comunicato stampa, che precede di diverse settimane la motivazione, dice anche che la Corte ha ritenuto «non irragionevoli né sproporzionate le scelte del legislatore adottate in periodo pandemico sull’obbligo vaccinale del personale sanitario». Parole abbastanza definitive che probabilmente sono state ritenute necessarie anche a seguito degli attacchi molto forti che sono arrivati, in udienza, dagli avvocati dei no vax alle scelte del governo. Le righe finali liquidano una questione sulla quale poco ci si attendeva, e cioè la richiesta che fosse il datore di lavoro (privato) ad anticipare un assegno ai lavoratori sospesi. Le decisioni sulle cinque ordinanze arrivate dal tribunale del lavoro di Brescia e su quelle arrivate dal tribunale di Padova e dall’organo di giustizia amministrativa, sono state decisioni nel merito. Mentre nel caso più atteso si è trattato di una decisione di metodo: i giudici non hanno discusso la costituzionalità o meno della sospensione anche di chi può lavorare a distanza perché si sono fermati alla inammissibilità.
Il comunicato da solo non può dare tutte le spiegazioni, ma consente di escludere qualche ipotesi. La «inammissibilità per ragioni processuali» significa che per la Corte non c’è un problema di irrilevanza del giudizio costituzionale sulla causa originale, come qualcuno pure sosteneva visto che nel frattempo la legge è cambiata e l’obbligo vaccinale è caduto. C’è infatti il tema degli stipendi perduti e, del resto, questo genere di valutazione avrebbe travolto con l’inammissibilità tutte le ordinanze, non solo quella di Milano. L’unica ipotesi che si può fare è allora che la Corte abbia riscontrato un problema di giurisdizione del Tar lombardo, non assoluto visto che nulla ha detto sul caso sollevato dall’organo di giustizia amministrativa siciliano, ma relativo al fatto che a Milano si discute una causa che riguarda il rapporto tra un lavoratore e il suo ordine professionale (psicologi) mentre a Palermo si tratta di un rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione (tirocinante-ospedale).
Se così è stato – si possono fare solo supposizioni – l’avvocato Stefano De Bosio che ha difeso le ragioni della psicologa anche davanti alla Corte, ha un problema: «Perché la Corte non ha sollevato la questione del difetto di giurisdizione in udienza? Hanno persino cambiato le regole per prevedere domande agli avvocati. Non ci è stata data la possibilità di dibattere sul tema, nemmeno l’avvocatura dello stato aveva posto il tema della inammissibilità. Anche la presidenza del Consiglio, come noi, chiedeva una decisione nel merito»..
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