«O tutti o nessuno». All’interno gli studenti, molti con il camice bianco. All’esterno le studentesse, con abiti lunghi e il capo coperto. Le braccia in alto, a issare cartelli con lo stesso slogan scritto a mano: «O tutti o nessuno». È così che ieri centinaia di studenti e studentesse della facoltà di Medicina dell’università di Nangarhar, nell’omonima provincia orientale afghana, hanno protestato contro la decisione dell’Emirato islamico di sospendere l’accesso nelle università pubbliche e private alle ragazze.

A Jalalabad, capoluogo della provincia, diversi studenti sono usciti dalle aule in segno di protesta. Altri hanno fatto “da sponda” alla manifestazione delle loro colleghe, costrette a rimanere oltre il cancello di ingresso. Piccoli, importanti segnali di solidarietà tra uomini e donne si sono registrati anche altrove: la decisione del ministro dell’Istruzione superiore, Neda Mohammad Nadim, è destinata a inasprire il conflitto tra la leadership dell’Emirato e buona parte della società afghana, convinta che l’istruzione sia strumento di emancipazione, riscatto sociale, partecipazione alla vita pubblica. Anche per le donne.

PER LA COMPONENTE dei religiosi oltranzisti e ortodossi della leadership talebana, capace di imprimere la propria matrice al corso del secondo Emirato, le donne non devono produrre saperi, conoscenze, relazioni, cambiamenti sociali, politici, economici, ma riprodurre. Riprodurre lo status quo, fare figli, starsene a casa. Case al cui interno prendono forma dinamiche che i Talebani – per 20 anni vissuti in clandestinità, preoccupati di condurre la lotta armata, orientati a sopravvivere o a conquistare militarmente territori, spesso rifugiati in Pakistan – conoscono poco. Pretendono di rappresentare l’intero popolo afghano, ma non lo conoscono. Vale soprattutto per i clerici ortodossi, che legittimano le proprie scelte attraverso il riferimento alla sharia, al diritto islamico.

L’Emirato è tale se è «veramente islamico», ripetono la guida dei fedeli, Haibatullah Akhundzada, e i clerici che gli ruotano intorno. Ma le loro decisioni indeboliscono l’Emirato, anziché legittimarlo o rafforzarlo.

La scelta di negare il diritto allo studio prima alle adolescenti, ora alle universitarie approfondisce gli attriti all’interno della leadership, tra gli ultraconservatori e quanti – anche nei ministeri di peso – ritengono che quel diritto sia già acquisito dalla società. E indebolisce ulteriormente il regime nel rapporto con la comunità internazionale.

PER UNA PARTE DEI TALEBANI il mondo esterno conta poco, è vero. Più le cancellerie straniere criticano, condannano, chiedono revisioni e inversioni di rotta, più viene confermata l’illusione di essere sulla via giusta. La sovranità o è piena o non è tale. Contano su quell’autosufficienza che il Paese non ha mai veramente avuto. E sanno che, quanto a sanzioni, isolamento, guerra economica, peggio di così è difficile arrivare. Ma per gli altri Talebani, i cosiddetti pragmatici, diventa sempre più complicato: si tratta di far credere agli stranieri che anche loro contino qualcosa e mantenere aperti i canali di comunicazione con l’esterno, mentre il Paese affronta il secondo inverno dentro una crisi umanitaria senza precedenti. L’esterno, per i Talebani ortodossi, fa rima con interferenza, con intromissione indebita.

Di fronte all’ottusa pretesa di poter fare a meno degli altri e del mondo esterno, di fronte alla rotta autarchica impressa al nuovo Emirato, la forza per un cambiamento non può che venire dall’interno. Dalle studentesse a cui è stato negato il diritto all’istruzione. Dai colleghi che hanno manifestato con loro. Dal conflitto sociale che, anche se sotterraneo, corrode le fragili fondamenta del nuovo Emirato.