O.J. Simpson, un mondo fuori gioco
Storie Morto a 76 anni l’ex campione di football e attore accusato - e assolto - di aver ucciso l’ex moglie. Un processo mediatico che divise l’America e produsse documentari e fiction
Storie Morto a 76 anni l’ex campione di football e attore accusato - e assolto - di aver ucciso l’ex moglie. Un processo mediatico che divise l’America e produsse documentari e fiction
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OJ Simpson, il processo che fermò l’AmericaDI LÌ A POCO noi inviati stranieri, assieme ad apparentemente ogni giornalista vivente in America ci saremmo trovati a seguire e cercare di spiegare una vicenda inspiegabile. Non tanto il romanzo criminale al centro del sordido episodio di cronaca, ma il corollario psico-mediatico che si sviluppò tutto attorno fino ad avviluppare la nazione in un turbine senza precedenti. Al centro del vortice, quello che era sembrato un caso abbastanza chiaro di colpevole femminicidio, si caricò di valenze politico-sessuali ed inevitabilmente di una dimensione razziale nella città ancora traumatizzata dalle rivolte afroamericane di due anni prima.
All’esterno del tribunale si formò un villaggio mediatico, fatto di roulotte, mezzi satellitari, postazioni semipermanenti per i corrispondenti e foreste di telecamere. Le telecamere c’erano anche all’interno dell’aula dove, per la prima volta, un processo veniva trasmesso in diretta, modificando le abitudini lavorative di un paese sintonizzato giorno e notte e creando nuove figure professionali come i commentatori legali per i canali all-news.
Dieci anni prima di Michael Jackson e Amanda Knox – il caso inaugurava la postmodernità giudiziaria con una fiera delle vanità che scoperchiava l’oceano di vacuità e narcisismo sottostante le élite mondane e quelle politico-giudiziarie che a Hollywood vi sono inestricabilmente sovrapposte. «Processo del secolo» è un’etichetta inflazionata, ma il melodramma OJ, accusato del sanguinario omicidio della moglie Nicole Brown e del suo amico Ron Goldman, eclissò ogni precedente, diventando oggetto di giornalismo, gossip, documentari e fiction – memorabile soprattutto The People vs. OJ Simpson, la rivisitazione di Ryan Murphy per la Hbo nel 2016.
AVREBBE dichiarato Cuba Gooding Jr. che in quella fiction lo interpretò: «In fondo abbiamo da ringraziare il caso OJ se oggi conosciamo il clan delle Kardashian. (figlie di uno degli avvocati di Simpson, ndr.) Fu il momento in cui la celebrità precipitò definitivamente dal suo piedistallo e cadde fra tutti noi».
Il fascino irresistibile della vicenda era legato alla vertiginosa caduta del protagonista dal piedistallo eroico sul quale era stato elevato dallo sport e dal sistema commerciale che lo contorna. Aveva fatto del singolare giovane atleta, leggendario campione della NFL, inarrivabile simbolo di successo e di integrazione. Ad OJ si attribuisce tuttora la frase «non sono nero, sono OJ» come se, più che dalle discriminazioni razziali, fosse stato emancipato dalla sua stessa razza.
Fra le testimonianze del processo che più contribuirono al verdetto di assoluzione, vi fu quella dell’agente Mark Fuhrman, rivelatosi suprematista e razzista.
UN’EMANCIPAZIONE posticcia di cui facevano parte la bella (e bianca) moglie da telenovela, la carriera da testimonial e stella minore del cinema (la serie della Pallottola spuntata), la villa di Brentwood quartiere di star e celebrità. Quando il processo strapperà l’illusione, con la reputazione di Simpson, decadrà anche il dispositivo di auto assoluzione legato alla sua santificazione. E col giudizio pubblico di una colpevolezza quasi universalmente accettata, torneranno a galla tutte le scomode verità taciute dalla rappresentazione eroica.
Fra le testimonianze del processo che più contribuirono al verdetto di assoluzione, vi fu quella dell’agente Mark Fuhrman, rivelatosi suprematista e razzista. La decisione fu dunque inevitabilmente acclamata da una comunità afroamericana che a LA era appena passata per l’ignominiosa umiliazione dell’ennesimo scagionamento dei poliziotti aguzzini di Rodney King e una rivolta soffocata nel sangue. «Quando abbiamo appreso la tua assoluzione», avrebbe detto anni dopo Al Sharpton, al funerale di Johnnie Cochran, principale avvocato di OJ. «Con tutto il rispetto brother Simpson, non abbiamo applaudito per te, ma Johnnie. Perché per decenni i nostri fratelli, padri e cugini avevano dovuto affrontare da soli la giustizia bianca ma ora avevamo finalmente qualcuno capace di affrontare assieme a noi qualsiasi giuria. E vincere». Nei quartieri delle continue angherie del Lapd contro la comunità afro americana, il verdetto non poteva dunque che essere accolto come parziale risarcimento per il razzismo storico e congenito della famigerata polizia cittadina, anche se nessuno ha potuto liberarsi del tutto di un retrogusto amaro: di tutti gli eroi, militanti o semplici cittadini innocenti perseguitati, pestati ed uccisi – l’unico che aveva battuto il sistema era OJ, che più di ognuno ne faceva parte.
Meno eclatante fu il secondo processo, civile, in cui venne ritenuto passibile di milioni di dollari in danni riparatori alla famiglia delle vittime. Del 2007 fu invece l’arresto a Las Vegas per una vicenda di «memorabilia» sportiva che affermava gli fosse stata rubata e che si riprese da un mercante di souvenir con l’ausilio di una pistola. Quella vicenda risultò in una condanna e quasi dieci anni scontati in galera. Dimostrazione di continuata persecuzione da parte dei sostenitori – e parziale riscatto per la schiera- più numerosa – di coloro che hanno sempre ritenuto il suo caso un eclatante esempio di errore giudiziario.
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