Proseguono le dimostrazioni per le strade di Teheran, Mashhad, Esfahan, Rasht, Kerman, Chabahar, Karaj, Gargan e Sanandaj, la città della provincia iraniana del Kurdistan dove nei giorni scorsi si erano già verificati duri scontri tra manifestanti e forze dell’ordine. Le proteste continuano anche in alcuni atenei della capitale Teheran. E gli scioperi coinvolgono – per la prima volta – varie categorie professionali: operai (anche di stabilimenti petrolchimici), insegnanti, avvocati e commercianti interrompono le loro attività in solidarietà con i manifestanti. A un mese dall’arresto di Mahsa Amini, il bilancio è di almeno 201 morti, tra cui 23 minori. Gli attivisti denunciano limitazioni sempre più frequenti all’accesso a internet.

AUMENTANO gli arresti e le violenze nei confronti dei liceali e degli studenti universitari fermati dalle forze dell’ordine. A preoccupare le famiglie dei giovani arrestati durante le manifestazioni sono le ritorsioni: molti ragazzi sono stati portati in centri di cura psicologica e saranno sottoposti a «trattamento correzionale». Per il leader supremo Khamenei, infatti, «coloro che hanno partecipato alle rivolte non sono tutti dello stesso tipo. Alcuni sono agenti del nemico o in linea con il nemico. Altri sono solo esagitati. Non dovrebbero essere giudicati tutti allo stesso modo. Per questi ultimi è necessario un lavoro a livello culturale». L’obiettivo sarà «rimuovere gli aspetti antisociali del carattere, gli studenti saranno liberati dopo essere stati ‘corretti’».

Avvocata specializzata in diritti delle donne e dei bambini, Mehrangiz Kar commenta così la situazione iraniana: «I giovani dicono no ai mullah, le ragazze si tolgono il velo obbligatorio. Mettono l’accento sulla laicità. Reclamano diritti civili senza riferimento ai valori islamici. Dicono no al terrorismo, all’Islam politico e al coinvolgimento nei conflitti». In esilio negli Stati uniti, Kar lavora al Pembroke Center for Teaching and Research on Women presso la Brown University e tiene corsi sui diritti delle donne in Iran. Nota femminista, Kar osserva che «si è aperto un nuovo capitolo nella storia dell’Iran. Siamo in una rivoluzione al tempo stesso sociale e politica, i giovani hanno capito che la Repubblica islamica non si può riformare, per ottenere la libertà è indispensabile un cambio di regime e, per questo, le nuove generazioni sono pronte a lottare».

LA REPRESSIONE non va però sottovalutata, come dimostrano le vicende di questa attivista, testimone della brutalità della Repubblica islamica. Il 29 aprile 2000 era stata arrestata con Shirin Ebadi altri intellettuali per aver partecipato a una conferenza a Berlino sulle riforme sociali e politiche in Iran. Accusata di azioni contro la sicurezza nazionale e di violazione del codice di abbigliamento, Kar aveva scontato una pena detentiva nel famigerato carcere di Evin, a Teheran. Si era ammalata, e per questo era stata scarcerata su cauzione. Quando aveva lasciato il Paese, il marito Siamak Pourzand, anche lui attivista e prigioniero di coscienza, è sparito dalla circolazione ed è morto suicida nel 2011 dopo un lungo periodo di detenzione e torture.

TORNANDO alle proteste, il leader supremo accusa l’Occidente di averle incoraggiate. «L’unico modo per risolvere il problema è la resistenza», ha dichiarato Khamenei criticando le «potenze arroganti» che – per contrastare le mosse dell’Iran verso lo sviluppo – avrebbero «elaborato piani stupidi, fornito sostegno finanziario e anche portato alcuni politici dagli Stati uniti e dall’Europa sul teatro» delle dimostrazioni per Mahsa Amini.

PER ALZARE LA TENSIONE, l’Organizzazione atomica iraniana ha confermato che l’Iran sta rapidamente espandendo la capacità di arricchire l’uranio con nuove centrifughe avanzate, come già comunicato dall’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea). L’attività di arricchimento dell’uranio sarebbe in linea con la legge dell’Iran sulla riduzione degli impegni di Teheran rispetto all’accordo sul nucleare siglato nel 2015, ma da cui gli Usa si sono ritirati nel 2018. Intanto Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha dichiarato: «Credo sia arrivato il momento di sanzionare i responsabili della repressione». Ma difficilmente ulteriori sanzioni fermeranno i pasdaran.