Noioso come la pioggia torna l’attacco a Giaime Pintor dalla terza pagina del Corriere della Sera. Pretesto, stavolta, un articolo di Mauro Canali su Nuova storia contemporanea, patriottico bimestrale biancorossoverde che costeggia i passati fascismi europei e spara ad alzo zero contro i passati antifascisti e comunisti. Stavolta nel mirino non c’è soltanto Giaime ma anche il fratello Luigi, che da vivo neanche il più volgare avversario avrebbe attaccato. L’intenzione è gettare dubbi o possibilmente fango su due figure limpide, all’insegna dell’«erano anche loro come noi», aria del tempo. E qualcosa rimane anche in chi protesta: via, di gente come Giaime e Luigi Pintor non va sottolineata qualche piccola magagna.

Ma quale magagna? Dunque ricominciamo, spero per l’ultima volta.

1. Non esiste un caso Giaime Pintor. La sua breve esistenza è trasparente e accessibile. Gli scritti pubblicati o da pubblicare sono stati raccolti a cura di Valentino Gerratana per Einaudi in Il sangue d’Europa, più volte ristampato (l’ultima – credo – nel 1975). Gli scritti privati sono stati messi dal fratello Luigi a disposizione di Mirella Serri, che li ha pubblicati in Doppio Diario (Einaudi, 1978). Dal 1919 al 1943 non ha vissuto che sotto il fascismo, e il suo percorso è molto interessante per la formazione di una gioventù intellettuale degli anni Trenta.

Si era iscritto alla facoltà di legge ma prediligeva la letteratura, aveva collaborato poco più che ragazzo con l’editore Einaudi, era stato chiamato nell’esercito – periodi e luoghi conosciuti esattamente – e dopo l’8 settembre, cercato invano nell’Italia regia di mettere in piedi con altri una forma di intervento nella resistenza, decideva di passare le linee tedesche per raggiungere le formazioni partigiane nel centro-nord. Concordò il passaggio con gli alleati ma saltò su una delle mine che i tedeschi avevano lasciato ripiegando. Nulla di questo è stato taciuto fin dalla prefazione, via via aggiornata, di Valentino Gerratana a Il sangue d’Europa.

2. Esistono dei modesti casi giornalistici su Giaime. Il primo nel tempo, credo, è stato costruito da Paolo Mieli su l’Espresso a proposito della recensione di Franco Fortini al volume Doppio Diario curato dalla Serri. Secondo Mieli, Luigi Pintor, direttore de il manifesto, dopo averla chiesta a Franco Fortini avrebbe rifiutato di pubblicarla, rompendo un’amicizia e rivelando la sua natura di burocrate comunista censorio. Senonché Luigi non aveva chiesto nulla a Fortini, che peraltro conosceva appena, non essendo nel suo stile chiedere nulla per sé, né per il suo proprio giornale.

La richiesta a Fortini venne da Severino Cesari, che allora si occupava delle nostre pagine culturali. Quando arrivò il pezzo nel quale Franco scriveva con qualche acredine d’un Giaime per natura borghese che se fosse vissuto sarebbe diventato un «commis d’état», Cesari si preoccupò di Luigi, che non aveva mai cessato di soffrire per la perdita del fratello e del suo messaggio morale. Mi portò il pezzo: che facciamo? Mostriamolo a Luigi. Luigi lesse, divenne pallido e non fece parola. Fui io, non lui, a decidere di non pubblicarlo. Io lo dissi a Fortini, che se ne irritò grandemente. Luigi gli scrisse un duro biglietto, del tono «sei uno che spara alle spalle», che Franco non rese mai pubblico. Di tutto questo ho scritto nella introduzione a Disobbedienze, pubblicato dalla manifestolibri nel 1997.

Mieli avrebbe potuto facilmente informarsi con me, Luigi o Cesari prima di scrivere. Poteva rivolgere a me le accuse che faceva a Luigi. Ma era più saporoso sporcare Luigi. Non gli rispondemmo.

Il secondo caso è stato costruito da Mirella Serri, che ne Il breve viaggio. Giame Pintor nella Weimar nazista (Marsilio, 2002) «rivelava» la recensione fatta da Giaime per Primato sul convegno degli scrittori tedeschi a Weimar, imputandogli di avere frascheggiato con il nazismo e Bottai, e inaugurando la serie «demistifichiamo i presunti martiri antifascisti». Senonché la recensione incriminata non era stata affatto nascosta, ma pubblicata, assieme alla notizia del viaggio e a uno scambio con Vittorini, da Valentino Gerratana in Il sangue d’Europa.

Gerratana dava anche conto – e lo veniva facendo tutta una memorialistica – del tentativo di Primato di stabilire, come attraverso i Littoriali, un contatto con l’intellighentsia più giovane, che sentiva sfuggirgli e infatti gli sfuggì. Essa, senza altre sponde, l’antifascismo dei padri essendo stato represso o clandestino, nel volgere degli Anni 30 si cercava dove era possibile trovarsi e fare una qualche fronda. Quanto a Primato respinse l’articolo di Giaime, che parve ed era sprezzante.

3. Il terzo caso è costruito ora da Nuova storia contemporanea (n. 4, luglio-agosto 2007) sulla base dell’«esile» fascicolo degli archivi dello Special Operations Executive, branca operativa dei servizi inglesi, che raccolgono le schede di coloro con i quali fu preso un contatto in Italia. Uno di essi era Max Salvadori, che fu poi intelligente collaboratore de Il Mondo di Pannunzio. Probabilmente fu lui a segnalare alla fine di agosto del 1943 che Giaime Pintor cercava un modo di passare le linee e non da solo.

Il fascicolo correttamente riporta che il contatto fu preso un paio di settimane prima della partenza, che Giaime si scelse per nome di battaglia Stille, lo pseudonimo che usava per scrivere in comune con Mischa Kameneski (e questi avrebbe assunto in sua memoria quando, dopo la guerra, scrisse per Il Corriere della Sera, Ugo Stille), che non intercorse alcun contratto, che il fine di Giaime era «patriottico» e non ci furono compensi in denaro. Il gruppetto doveva essere guidato da Garosci, che poi si ammalò e la guida, se così si può parlare in quell’avventurarsi al buio, fu assegnata a Giaime. Il quale saltò sulla mina a Castel Volturno, gli altri a distanza sentirono e fuggirono, poi sarebbero tornati a battersi e avrebbero avuto destini diversi – uno di essi finì alle Ardeatine. Non so se per volontà o insipienza, Mauro Canali ne deduce in questo una storia alla James Bond: Giaime che diventa un «agente» dei servizi segreti inglesi, nonché una scelta di campo politico. Forse, nella sua mente, un futuro comunista avrebbe scelto i russi.

Senonché il Canali è doppiamente fuori contesto: con chi se non con il Soe avrebbe potuto prendere contatto un giovane tenente italiano deciso a raggiungere il centro-nord? Con il generale Montgomery? L’Intelligence inglese offriva quel che sapeva ai patrioti antifascisti e antitedeschi, cui l’esercito regio non offriva nulla. Anche quando la sottoscritta, a Como, dovette far passare «agli alleati» del materiale della X Mas lo fece inoltrare in Svizzera agli inglesi. E non solo e perché quelli erano sul posto e più interessati degli americani – fin troppo, protessero Badoglio contro venti e maree, per cui il maresciallo poté morire nel suo letto ed aver funerali di stato dalla Repubblica, malgrado avesse ordinato le stragi in Libia e poi nei Balcani. Per strano che possa apparire a certe anguste menti, non solo nel corso del conflitto ma fino al discorso di Churchill a Fulton, tutti credemmo nell’alleanza antifascista. A dividerla venne la guerra fredda, dopo. E non fu solo a Giaime che l’America apparve giovane, produttiva, libera dagli spettri europei; ricordo l’effetto che ci fecero i soldati americani, ragazzoni con le scarpe, la divisa snella e l’andatura sciolta invece degli stivali, le rigide uniformi tedesche e il passo dell’oca.

Un solo punto dell’«esile» fascicolo mi riesce nuovo, che alla liberazione di Roma la famiglia Pintor ricevesse 200mila lire. Non era certo un «risarcimento» per la morte di Giaime. Conobbi a lungo Dino Gentili, socialista e mi rincresce di non averglielo potuto domandare.

4. Per ultimo, è una manipolazione bell’e buona pretendere che il Pci o Luigi per il Pci abbiano gabellato Giaime per appartenente al partito. A parte la notizia del 1944, neanche l’articolo di Amendola del 1948 può essere letto in questo senso – i resistenti in spostamento prendevano contatto con il gruppo che trovavano, senza domandare prima la tessera o l’inclinazione, e comunisti e azionisti erano quelli che si facevano trovare per primi. Quanto a Luigi, non disse né scrisse mai, da nessuna parte, che suo fratello era o sarebbe diventato comunista. Buon Dio, è morto a 24 anni! E i partiti cominciavano appena a definirsi! Non esiste più una decenza? Che ci si battesse anche per i lavoratori, operai o contadini, non era segnale di comunismo, ma coscienza comune. Per citare un titolo recente, si legga la corrispondenza fra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, pubblicata da Giovanni De Luna. Erano bolscevichi?

Ma forse sono precisazioni inutili, suppongono un giornalismo in buona fede, errori di ottica o pura e semplice ignoranza. È così? La domanda va rivolta, anzi dovrebbe rivolgere a se stesso, il direttore del Corriere della Sera, Paolo Mieli. Da storico e interpellato come tale farebbe bene a dare un’occhiata alle sue terze pagine.

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Il documento:

Antifascismo:due forme diverse, più la nostra
di Giaime Pintor

L’antifascismo è esistito in Italia almeno in tre forme. La prima forma è caratterizzata dall’astensione ed è stata propria dei vecchi liberali e di tutti coloro che ne hanno ereditato la formazione: costoro badavano soprattutto a non macchiarsi e insistevano quindi sugli atti di valore formale (iscrizione al partito, saluti, dare del lei ecc.). Reazione naturale nei primi anni del fascismo e in coloro che erano cresciuti in un altro mondo quest’atteggiamento è diventato poi caratteristico di una assoluta impotenza e ha segnato il limite deteriore dell’antifascismo intellettuale. Inoltre col passare degli anni sempre più si appoggiava a un errore storico in quanto presupponeva che il fascismo fosse una specie di eruzione momentanea che sarebbe scomparsa senza lasciare traccia. (Ancora nel ’42 Croce mi diceva che unico segno sarebbe rimasta una colonna in via dell’Impero con scritto sopra il verso carducciano: «Son le rovine di un’onta senza nome». Mentalità appunto carducciana).

Il secondo atteggiamento è quello che si può chiamare cospirativo e che fu proprio di tutti i fuorusciti e di un certo numero degli antifascisti italiani (per esempio i comunisti). A questo secondo gruppo appartengono quasi tutte le migliori energie del tempo accanto a molti esaltati irresponsabili; tuttavia l’errore degli [uni] come degli altri fu di contare su una riserva di energia politica nelle masse italiane, che in realtà non esisteva, per cui molte furono le vittime e modesti i risultati (in questo senso l’antifascismo it. [italiano] è l’erede diretto del mazzinianesimo).

Infine una terza tendenza di cui pochissimi però furono consapevoli è quella a [cui] si trova portata la nostra generazione più giovane. Astenersi fin dalla nascita, è poco più che il suicidio, così noi tutti ci trovammo mescolati, chi più chi meno, nella vita contemporanea e disposti a coglierne i frutti. Questa posizione che era molto pericolosa perché poteva confondere facilmente gli animi più deboli, era però la più feconda: essa segnava il superamento definitivo dell’antitesi fascismo-antifascismo, e con lo scoppio della guerra ci poneva di fronte a una prassi che istintivamente noi sentimmo più urgente e più ampia di quella [che] da molto tempo [avevano] cercato i fautori di qualsiasi restaurazione. I primi erano stati incapaci di trovare il «point d’issue»; noi, forse senza nostro merito, siamo già più forti perché ci affacciamo al momento giusto.