Non si riaggiustano i cocci del Novecento che fu
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Non si riaggiustano i cocci del Novecento che fu

Partiti Ricomporre una forma politica indipendente dalla persuasione valoriale, che faccia emergere contenuti, narrazioni (e candidati) in assenza di valori pregressi
Pubblicato quasi 3 anni faEdizione del 9 febbraio 2022

L’alternativa al neoliberismo (Pennacchi, il manifesto, 28 gennaio), si può costruire riportando le questioni valoriali nel discorso pubblico? È sufficiente una politica che intenda sottrarre i valori dalla trappola delle preferenze del consumatore e del nichilismo senza soggetto?

C’è, in questa narrazione, una enorme illusione novecentesca. Quando ci si propone di intervenire politicamente per produrre una modificazione dello stato delle cose si implica che sia possibile orientare l’opinione di una serie di destinatari in una determinata direzione. Con l’obiettivo di generare in essi reazioni, aumentarne la consapevolezza, mobilitarne l’azione. Di solito si presume che per ottenere questi effetti sia necessario condividere e diffondere dei contenuti valoriali, dei messaggi carichi di significato, oppure fare delle promesse motivanti.

Tuttavia sia la persuasione fondata sul convincimento, che quella basata sulla seduzione-contrattazione richiedono un accreditamento da parte degli “emittenti”, tanto come portatori di contenuti fondati, quanto come attori che hanno il potere di mantenere le promesse che fanno.
I partiti organizzati e le ideologie hanno svolto, in passato, questo ruolo. Nel modello del partito di massa novecentesco, i contenuti generavano consenso perché chi li enunciava era ritenuto affidabile in quanto portatore di un ruolo (il segretario, il dirigente) all’interno di una struttura, di una ideologia unificante che dava vita a un processo fiduciario tra rappresentati e rappresentanti. Contenuti fondati e promesse credibili articolavano così un significato progettuale da proporre al collettivo per ottenere consenso.

Questa prospettiva, ovvia, dell’intervenire politico presupponeva che vi fossero due componenti, l’una proponente e l’altra ricevente. Così come presupponeva la possibilità di uno “scambio politico” tra consenso della base e controllo dell’azione pubblica da parte della classe politica. Queste sono le basi strutturali e organizzative di qualsiasi proposta fondata sui “valori” e sulla persuasione motivante. In assenza di tali condizioni, che oggi sono una chimera, occorre guardare altrove.

L’ipotesi da esplorare è questa: capire se è possibile ricomporre una forma della politica indipendente dalla persuasione valoriale, una forma (o un insieme di forme) che faccia emergere dei contenuti, delle narrazioni (e anche dei candidati) in assenza di valori pregressi condivisi. Una ricomposizione che lasci gli strumenti persuasivi agli attori che vengono coinvolti e che non pretenda di dettare, sin dall’inizio, una visione giusta e ottimale a cui bisogna aderire.

La visione dovrà comporsi alla fine e non all’inizio del processo. Un progetto, quindi, costituito da catene di azioni, non verso una costruzione finalistica, ma incrementale, e che possa poi condurre a un qualche atto istitutivo (rappresentanti, un contratto collettivo, la sottoscrizione di un progetto, un piano di azione coordinato…). La mobilitazione non avrebbe il carattere edificante-pedagogico di guida alla scoperta dei significati perduti, nascosti o traditi della consapevolezza politica (valori, visioni, intenzioni).

Per queste azioni di mobilitazione non servono più i partiti, le parrocchie, i giornali, che hanno oggi altre funzioni. E neppure i tanto invocati corpi intermedi. Servono, piuttosto, luoghi, spazi e oggetti intermedi. Servono “quelle cose” capaci di mobilitare a monte le persone intorno a pratiche sociali il cui effetto a valle dovrebbe consistere nella sedimentazione di significati e valori condivisi, che diventerebbero così la conseguenza dell’azione collettiva, non la loro premessa.

Servono, per questo, nuovi oggetti politici, non un nuovo soggetto politico. Servono spazi fisici, piattaforme, oggetti socio-tecnici, dispositivi mobilitanti, per istruire e organizzare una serie eventi e rituali che abbiamo come finalità non tanto la diffusione di un programma scritto da qualcuno in nome di qualcosa, ma una strategia progressiva di “alleanze miopi”.

Eventi e rituali che, per essere generatori di una politica emancipativa e di sinistra, dovrebbero nascere vicino a conflitti sociali ed economici, a ridosso di controversie sull’uso degli spazi e delle risorse, intorno ad asimmetrie di potere tra “chi ha” e “chi non ha”, vicino alle persone e nei luoghi di vita, lavoro e consumo, accanto alla possibili relazioni tra diritti economici e civili. Tessendo reti di significati tra bisogni quotidiani e soluzioni collettive. Senza però invocare valori pre-costituiti, le cui condizioni di efficacia richiedono condizioni strutturali e organizzative lontanissime dagli assetti socio-politici in cui siamo oggi immersi.

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