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Non si deve lasciare alla Lega la lotta all’austerità della Ue

Non si deve lasciare alla Lega la lotta all’austerità della Ue – Reuters

Economia Messa in mora del fiscal compact e sterilizzazione di una fetta di debito. Gli Usa per uscire dalla crisi hanno portato il deficit al 12,5%, la Francia, fino a oggi, sopra il 3%

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 17 maggio 2018

La bozza del «contratto di governo» tra Lega e Movimento 5 Stelle, che da ieri sembra conclusa, a parte le modifiche contiene un programma politico innegabilmente di destra.

Tuttavia, in esso campeggiano anche alcuni temi rispetto ai quali, a sinistra, sarebbe sconsigliata sia l’ironia che lo stupore o, addirittura, l’esecrazione.

Mi riferisco alla vexata quaestio della riscrittura dei Trattati europei e a quella del taglio del debito.

Due argomenti che conducono dritto al cuore dei problemi italiani: crescita insufficiente, basso livello di investimenti, alta disoccupazione, povertà dilagante.

Beninteso, la spesa in deficit ed il recupero di una parte del flusso finanziario che ora va a «servizio del debito» possono servire sia per tagliare le tasse ai ricchi (come avverrebbe con la flat tax) che per rilanciare la domanda interna e fare politiche di perequazione sociale. Lo dimostra, efficacemente, il caso americano (e in parte quello giapponese).

C’è pure che, ormai, la stessa crescita non crea ricchezza per tutti. E’ un tratto saliente di questa fase del capitalismo, segnata, da un lato, da una crescita lenta e instabile (c’è chi ha parlato di «stagnazione secolare»), dall’altra da una accentuata polarizzazione della ricchezza.

Negli Stati Uniti, per fare un esempio, il reddito delle famiglie era nel 2014 pressoché uguale a quello del 1990, mentre, negli stessi anni, il Pil era cresciuto di circa l’80%.

Riconoscere tali contraddizioni, però, non significa doversi schierare, ipso facto, col partito dell’austerità. Alla base dell’attuale architettura europea c’è il mercato, non le persone. Il rigore è funzionale alla massimizzazione dei profitti della grande impresa ed a drenare risorse dal lavoro per dirigerle verso il mondo della finanza.

Non sono slogan: è quello che sta accadendo da oltre trent’anni a questa parte. Scende, ovunque, la quota di Pil che va al lavoro, cresce quella che va ai profitti ed alle rendite. Commercio a gonfie vele, numero di poveri mai così scandalosamente elevato.

Che ben vengano una messa in mora del fiscal compact ed una «sterilizzazione» di una fetta di debito da parte della Bce (l’argomento è tutt’altro che assente nelle riflessioni e nel dibattito a sinistra), allora.

Più facile a dirsi che a farsi? Gli altri paesi europei alzerebbero un muro? Ci sarebbe la rivolta dei mercati? Obiezioni legittime, ma cosa rimane della politica senza l’ambizione di poter cambiare lo stato di cose presenti?

Gli Stati Uniti, per uscire dalla crisi, hanno portato il proprio deficit al 12,5% del Pil, la Francia l’ha tenuto sopra il 3% fino ad oggi. E noi? Noi siamo tra i primi della classe, con un deficit stimato per quest’anno all’1,6% (siamo vicini al pareggio). Ma alla Commissione non basta: bisogna ritoccare di un altro 0,3%, che in euro farebbe 5 miliardi (oltre a quelli che servirebbero per disinnescare le clausole di salvaguardia). Follia, con la crescita che barcolla sul crinale dell’1%.

Intanto, Bankitalia, nell’ambito del programma di Quantitative easing, continua ad acquistare titoli del Tesoro. Ad oggi, nel bilancio dell’istituto di via Nazionale figurano titoli di Stato per un valore di 334 miliardi di euro (2,8 miliardi di euro gli incassi a titolo di interessi). E se questi venissero convertiti in «titoli irredimibili» (perpetuities, senza scadenza), perdendo, di fatto, la loro natura di «debito»? Niente di abominevole, un argomento ampiamente dibattuto in ambito politico ed accademico negli ultimi anni, con intensità maggiore dopo la crisi greca.

Scelte politiche, nient’altro.

Quindi, dal lato economico, il contratto tra Salvini e Di Maio andrebbe bene? Neanche per sogno. Perché la loro idea di flessibilità sui conti pubblici è funzionale ad una visione neoliberista dei rapporti economici e sociali.

Non c’è incompatibilità tra tassa piatta e reddito di cittadinanza nella versione pentastellata. Entrambe queste misure promuovono un modello sociale con meno diritti, dal lato dell’impresa. Meno tasse, maggiore soggezione dei lavoratori al gioco al ribasso del mercato del lavoro (reddito di ricattabilità, più che di cittadinanza).

E’ contro queste scelte di politica economica e sociale, perciò, che la sinistra dovrebbe levare la sua voce critica. Viceversa, il proposito di cambiare radicalmente i Trattati, di mettere fine agli attuali vincoli, di porre, in sede europea, la questione di una moratoria sul debito, andrebbe incoraggiato.

E’ già troppo che questi temi siano approdati in una trattativa di governo per mano di una forza politica radicalmente di destra, che in queste ore si pregia anche di sfidare i mercati.

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